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LETTERA

Diversi perché presi da Cristo

Il cristiano non è un apolide, ha una casa sicura costituita da Santa Madre Chiesa. Con questa certezza noi cristiani dobbiamo dialogare con tutti (anche perché il dialogo “è lo strumento della missione”), pieni dell’esperienza dell’incontro con Cristo, senza dimenticarci di “seguirlo” e senza paura di rimanere senza patria.

Famiglia 10_09_2017

Caro direttore,

nella calma (a volte eccessiva) della campagna piemontese dove ho trascorso le vacanze e dove, parecchi anni fa, sono nato, ho avuto modo di leggere (o rileggere) testi che mi sono particolarmente cari e di incontrare persone cui sono legato da vecchia amicizia cristiana. Con una certa emozione, mi è capitato di rivedere le pagine della “Vita di don Giussani” (Alberto Savorana, Rizzoli), nelle quali si racconta l’incontro, avvenuto nell’agosto del 1982, tra alcuni responsabili di CL (tra cui, naturalmente, don Giussani) e San Giovanni Paolo II, il quale ebbe a dire, anche riferendosi alla propria esperienza personale, che “ Voi non avete patria, perché voi siete inassimilabili a questa società” (pag. 630-633). 

Mi ha impressionato questo racconto perché mi ha ricordato i passi del Vangelo nei quali Gesù sottolinea la “diversità” di coloro che lo seguono e la previsione che “il mondo”, in qualche modo, non accetterà mai fino in fondo la presenza di quella “strana compagnia” costituita da cristiani che non abbiano vergogna di Lui. Il servo di Dio don Giussani così commentava quell’episodio: “uno che non ha patria è continuamente senza sicurezze umane, senza protezioni, senza soste, sempre in qualche modo attraversando, perciò ‘contro’, ma contro nel senso di attraversando. In fondo in fondo, se mettete insieme questa parole, esse rappresentano la descrizione o la definizione dell’anti-borghese, di ciò che non è borghese, di ciò che non è consolidato socialmente, di ciò che non è ‘established’ “.

Penso che questo episodio obblighi tutti ad una più profonda responsabilità rispetto alla nostra vita cristiana, di fronte a noi stessi ed a tutti gli uomini ed a tutte le donne che in qualche modo incontriamo. Il paradosso cristiano, comunque, ci lascia in pace, secondo la grande parola di Gesù dopo la Sua resurrezione. Infatti, anche se deve continuamente “attraversare” questo mondo, il cristiano non può mai considerarsi apolide, perché ha una casa ed una dimora sicura, costituita da Santa Madre Chiesa, come ci ha detto il grande Chesterton nella sua impareggiabile “Ortodossia”: quando egli ha definitivamente incontrato la Chiesa Cattolica, si è sentito a casa sua, dopo aver fatto il giro del mondo (vedasi anche “Le avventure di un uomo vivo”).

Con questa certezza, allora, noi cristiani dobbiamo dialogare con tutti (anche perché il dialogo “è lo strumento della missione”), pieni dell’esperienza dell’incontro con Cristo, senza dimenticarci di “seguirlo” e senza paura di rimanere senza patria. Ho la sensazione, infatti, che molti (troppi) cattolici oggi abbiano come prima preoccupazione quella di “piacere” al mondo, proprio per paura di rimanere senza patria. E’ proprio nel dialogo che non dobbiamo finire con l’avere vergogna di Cristo. Il dialogo, infatti, presuppone una solida maturità, che ci impedisce di essere un po’ meno cattolici al termine del confronto con il mondo. Anzi, il dialogo, se fatto da cristiani maturi, li conferma ancora di più nella propria fede, che viene arricchita e non sminuita dal confronto con gli altri.

Caro direttore, la fregola per il dialogo non deve far dimenticare la “diversità” dei cristiani, che sono diversi non per propria scelta, ma perché sono stati “presi” da Cristo.