Dittatura sanitaria in Cina. Stretta su religione, stampa e Hong Kong
L’epidemia di coronavirus sta inducendo anche i governi più democratici ad assumere atteggiamenti autoritari. Ma nei regimi autoritari, la pandemia è stata una vera manna: l’occasione per scatenare la repressione contro tutti i nemici interni. Ciò è particolarmente evidente in Cina, dove la dittatura si è ulteriormente inasprita per ragioni sanitarie. La prima a subire il giro di vite è la religione, con le nuove leggi contro il proselitismo che limita l'assunzione e la libertà anche degli insegnanti stranieri. Poi Hong Kong, dove per ragioni sanitarie (in teoria) è stato rimandato il voto: centinaia gli arresti nelle proteste. Infine i giornalisti, espulsi in gran numero per motivi politici. O arrestati, come l'australiana Cheng Lei.
L’epidemia di coronavirus sta inducendo anche i governi più democratici ad assumere atteggiamenti autoritari. Ma nei regimi autoritari, la pandemia è stata una vera manna: l’occasione per scatenare la repressione contro tutti i nemici interni. Ciò è particolarmente evidente in Cina, dove la dittatura si è ulteriormente inasprita per ragioni sanitarie.
A farne le spese è stata, per prima, la religione. Il Covid ha dato al regime di Pechino il pretesto per chiudere le chiese, fra i primissimi luoghi pubblici ad essere chiusi, assieme a templi buddisti e taoisti e luoghi di culto delle religioni tradizionali. Come abbiamo già riportato su queste colonne, la riapertura delle attività religiose, dopo la fine del lockdown, è arrivata tardi e solo a determinate condizioni dettate dallo Stato. Non solo condizioni di sicurezza sanitaria, ma anche e soprattutto politiche: adeguarsi alla “sinizzazione” della religione, con alzabandiera, prediche controllate dallo Stato e sessioni di propaganda. Ora il salto di qualità di questa politica è che viene applicato anche alle scuole in cui insegnano docenti stranieri. Molti di loro si sono visti il contratto cancellato dopo il periodo di chiusura. Un pastore protestante americano a Chongqing, che ha conservato l’anonimato, sentito dal quotidiano South China Morning Post, non solo non è stato rinnovato, dopo cinque anni di insegnamento, ma ha assistito anche alla rimozione di oltre 200 testi in inglese che aveva donato al suo istituto. Fra questi anche libri di autori “all’indice” per motivi religiosi, come Dietrich Bonhoeffer e CS Lewis.
Secondo le normative in progetto, contro il proselitismo, gli insegnanti dovranno sottostare a un corso di indottrinamento della durata di 20 ore, imparando “sviluppo, leggi, etica del lavoro e politica dell’istruzione della Cina”. I curriculum dei candidati saranno passati al vaglio con grande attenzione da commissioni politiche, per verificare che non facciano proseliti religiosi e non diffondano gli xie jiao, gli “insegnamenti eterodossi”, come vengono chiamate tutte le religioni illegali. La proposta include anche l’estensione agli insegnanti stranieri del sistema di crediti sociali, una vera “patente a punti” della cittadinanza, con cui i cinesi sono tuttora giudicati in ogni loro azione quotidiana. C’è anche chi è più realista del re, come l’amministrazione della provincia dello Hainan, che offre una taglia equivalente di 14mila euro per chi denuncia stranieri impegnati in “attività religiose esercitate senza permesso”.
Il Covid ha fornito anche il pretesto per rinviare le elezioni a Hong Kong, dove avrebbe dovuto essere rinnovato il Consiglio Legislativo domenica scorsa. La cancellazione delle elezioni è servita, a sua volta, per far emergere gli oppositori, con le loro proteste, e arrestarli, sulla base della nuova Legge per la sicurezza nazionale, che permette di interpretare in modo molto ampio le categorie di sovversione punite. Il primo a cadere in questa trappola è stato Tam Tak-chi, ex presentatore radiofonico e ora leader del movimento Potere Popolare. Tam è stato arrestato qualche ora prima della manifestazione organizzata dall’opposizione per protestare contro la sospensione delle elezioni. L’accusa è quella di aver “pronunciato parole sediziose”. In base alla nuova legge, scritta direttamente a Pechino e imposta a Hong Kong il 30 giugno, 21 persone sono state arrestate per sedizione, compreso l’imprenditore ed editore cattolico Jimmy Lai, fervente sostenitore delle riforme democratiche, ed Agnes Chow, leader femminile della protesta del 2019.
La manifestazione di protesta contro il rinvio del voto è stata anch’essa repressa dalla polizia anti-sommossa. Gli agenti hanno arrestato circa 300 persone, di cui 270 per “assemblea illegale” e per aver violato la normativa anti-Covid che vieta gli assembramenti. La Lega dei democratici sociali, gruppo di opposizione fra i più attivi, denuncia l’arresto di tre dei suoi membri più importanti: Leung Kwok-hung, Raphael Wong e Figo Chan. Nel disperdere la folla gli agenti sono sempre più violenti, hanno metodi meno britannici e più cinesi. In questo caso hanno fatto il giro del mondo di una bambina di 12 anni strattonata e buttata a terra dai poliziotti. Secondo la polizia, la giustificazione per un’azione simile è che la bambina aveva “un’aria sospetta”.
La pandemia, infine, è stata all’origine del giro di vite che Pechino ha dato alla stampa straniera. Secondo il Club dei corrispondenti esteri in Cina, nei primi otto mesi del 2020 sono 17 i giornalisti espulsi. Gli ultimi in ordine di tempo sono due australiani, Bill Birtles della Abc australiana e Michael Smith dell’Australian Financial Review. Prima che si ottenesse il loro rimpatrio i due giornalisti sono stati presi di mira dai servizi di sicurezza cinesi, con ispezioni nel cuore della notte. E sono poi stati interrogati a lungo dalla polizia cinese, senza alcun funzionario australiano presente. I due australiani erano indagati nell’ambito della stessa indagine che ha portato all’arresto della giornalista Cheng Lei, cittadina australiana, presentatrice della Tv China Global Television Network. Il 14 agosto era letteralmente scomparsa. La polizia ha poi rivelato che fosse detenuta in una località segreta e tuttora non si sa ancora di cosa sia accusata, se non che il suo arresto improvviso è legato a “questioni di sicurezza nazionale”. C’è un motivo politico per cui fra Cina e Australia non scorre buon sangue (a dire il meno): l’Australia si è esposta in prima linea, in ambito internazionale, per chiedere un’indagine sull’origine del coronavirus in Cina.