Disoccupazione, un problema posto male
Piuttosto che aspettare il risveglio di una domanda interna soffocata dal peso dello Stato è il caso di puntare sull’esportazione verso nuovi mercati dell’emisfero Sud che stanno risentendo meno del ristagno o della recessione dell’economia dell’Europa e degli Stati Uniti.
Prendendo vigorosamente il cane per la coda il governo Letta sta puntando alla lotta alla disoccupazione giovanile come chiave di volta della ripresa dell’economia. L’altro ieri, al suo esordio al Consiglio Europeo, il premier ha lanciato tale idea e si è poi detto molto soddisfatto che "il presidente dell’Ue, Herman Van Rompuy, abbia accettato e comunicato la nostra proposta: che al prossimo Consiglio di giugno il tema della lotta alla disoccupazione giovanile sia uno dei punti qualificanti".
Non stiamo qui a dire quanto conti in sede europea il sostegno di Van Rompuy, il grosso sughero che galleggia impavido a Bruxelles in qualunque acqua, senza poter né suscitare né placare alcuna onda. E non stiamo nemmeno a farci domande sul concetto di “punto qualificante”, una di quelle tipiche espressioni elegantemente vaghe di cui è ricco il lessico diplomatico.
Veniamo piuttosto al caso specifico del nostro Paese dove da un lato il tasso nazionale di disoccupazione dice poco o nulla, dal momento che varia moltissimo da una regione all’altra; e dove dall’altro l’esperienza dimostra che provvedimenti di tipo straordinario non funzionano mai perché lo Stato è un pachiderma che, non riuscendo a fare bene e in fretta nemmeno l’ordinaria amministrazione, tanto meno è capace di attuare programmi straordinari.
Per informazioni aggiornate rivolgersi a quei comuni e a quelle popolazioni delle zone della Valle Padana colpite del terremoto un anno fa che incautamente hanno puntato soprattutto sui fondi statali allora subito stanziati fra grandi squilli di trombe mediatiche. Se poi anche lo Stato riuscisse a fare quanto sin qui non ha mai fatto, resterebbe comunque intatta la questione di fondo: se non si tira sulla leva dello sviluppo tirare sulla leva dell’occupazione conta ben poco. Al massimo, con grandi spese e pochi risultati, si fa dell’assistenzialismo di corto respiro. Se poi a breve termine non si riesce a ridurre in modo rapido e consistente la pressione fiscale sul lavoro (e quindi sulle famiglie), è inutile sperare in una ripresa della domanda interna. È già tanto se si mantiene ai livelli cui è già scesa senza scendere ancora.
Quindi non resta che puntare sull’esportazione verso nuovi mercati giocando in primo luogo una carta che purtroppo la nostra classe dirigente sembra ignorare: quei molti Paesi dell’emisfero Sud che, essendo alla periferia dell’economia globalizzata, stanno risentendo meno della ristagno o della recessione dell’economia dell’Europa e degli Stati Uniti.
L’attuale crisi infatti è internazionale, ma non globale. Sia in America Latina che nell’Africa subsahariana che in Asia ci sono Paesi che ormai da diversi anni fanno registrare tassi di crescita molto consistenti, talvolta anche a due cifre.
Essendo il prestigio del modo di vivere italiano un fenomeno planetario, in tutti questi Paesi stanno crescendo nuovi ceti medi per i quali l’arredamento, l’abbigliamento, la gastronomia italiani sono quasi sempre un sogno da tempo accarezzato.
Si aprono perciò grandi prospettive per l’esportazione di nostri manufatti o di nostre macchine per fabbricarli a costi accessibili alle economie meno ricche, con tutti i servizi connessi e con tutti i flussi turistici verso l’Italia che ne verrebbero stimolati. A tutto ciò dà anche un contributo non secondario il fatto che a Roma c’è la Santa Sede, principale meta di pellegrinaggio inter-continentale del mondo, e che la nostra architettura e la nostra arte sacra sono la matrice dell’architettura e dell’arte sacra cristiana di tutto il globo.
Per tante famiglie dei nuovi ceti medi latinoamericani, africani, asiatici, la casa arredata all’italiana, il viaggio in Italia sono la realizzazione di un sogno che talvolta non era soltanto loro, ma già dei loro nonni, essendo magari anche ispirato dal desiderio di conoscere la patria di padri missionari venuti dall’Italia. In queste prospettive tuttavia il nostro Paese dovrebbe fare una politica estera e internazionale anche in proprio, e non solo al traino dell’Unione Europea che a tale riguardo non solo non ci è di aiuto, ma anzi in una certa misura ci è di ostacolo.