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STATISTICHE A CONFRONTO

Disoccupazione? Colpa della denatalità

Disoccupazione in Italia a livelli record, malgrado in undici anni siano diminuiti di oltre un milione i giovani che si affacciano sul mondo del lavoro. Paradosso solo apparente, perché contrariamente ai luoghi comuni, meno giovani vuol dire perdità di competitività e meno investimenti. 

Famiglia 04_04_2014
Culle vuote

Nei giorni scorsi ha fatto molto rumore l’ultimo rilevamento dell’Istat in materia di lavoro: in febbraio il tasso di disoccupazione in Italia è salito al 13%, un record storico, che equivale a 3 milioni 307 mila disoccupati, 272 mila in più rispetto all’anno precedente. Se consideriamo che nel 2013 già si erano persi 585 mila posti di lavoro rispetto al 2012, si capisce quanto la situazione sia grave, «sconvolgente» secondo il presidente del Consiglio Matteo Renzi. A pagare maggiormente sono i giovani alla ricerca di prima occupazione che sul totale dei disoccupati contano per circa il 20%.

Su queste cifre abbiamo sentito e letto fiumi di commenti, quello però che è stato completamente ignorato è l’apparente paradosso della situazione, visto che i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro sono in costante diminuzione. Ad esempio nel 2002 i giovani compresi tra i 20 e i 29 anni erano 7.626mila, il 13,4% dell’intera popolazione italiana, nel 2013 erano scesi a 6.338mila, il 10,6%. Insomma in undici anni l’Italia ha perso la bellezza di un milione e 300mila giovani, con una diminuzione di 3 punti percentuali sulla popolazione. Dati questi anche più drammatici della disoccupazione, ma che danno appunto l’idea del paradosso.

Insomma, come mai con una diminuzione così drastica della popolazione giovanile ci sono anche meno posti di lavoro per i giovani? Sembrerebbe un non senso, soprattutto dopo decenni di propaganda neo-malthusiana con cui ci hanno fatto credere che con la diminuzione della popolazione si sta tutti un po’ meglio. 

In realtà il paradosso è soltanto apparente, e ci sembra tale proprio per quel martellamento che ha portato gli italiani a non fare più figli (un trend che dura ormai da quasi 50 anni) pensando così di aumentare il benessere. I dati che abbiamo sotto gli occhi in realtà ridicolizzano l’assunto che sta alla base delle politiche anti-nataliste, ovvero l’idea che ci siano risorse fisse – e ovviamente conosciute – che si dividono per il numero dei commensali: quindi, meno siamo più ce ne è per tutti. Non è così: le risorse non sono una quantità fissa offerta dalla natura, ma dipendono dal genio umano che con la sua creatività sa sfruttare ciò che la natura gli mette a disposizione. Basti pensare alle risorse energetiche, la cui disponibilità e costo dipende da nuove fonti scoperte o dalle migliorate capacità estrattive o di uso di vecchie fonti. Oppure all’industria tessile, dove ottimi tessuti sintetici creati in laboratorio hanno soppiantato lana e cotone. E via di questo passo.

A maggior ragione il sistema economico-industriale dipende dalla disponibilità di nuove risorse creative. Soprattutto oggi che l’innovazione è sempre più veloce: l’invecchiamento della forza lavoro significa tra l’altro avere una minore incidenza di quella fascia di giovani lavoratori in grado di proporre e realizzare idee nuove e vincenti. In termini di competitività delle nostre aziende è un disastro. Per non parlare delle ripercussioni sulle piccole imprese familiari, che costituiscono il motore dell’economia italiana: i profitti vengono investiti nell’azienda se ci sono dei figli che poi porteranno avanti l’impresa (creando così nuovi posti di lavoro). Ma se i figli non ci sono, per chi investire? E se non si investe, i posti di lavoro non solo non aumentano, ma si perdono. E ancora: i giovani sono anche quelli che consumano maggiormente beni durevoli, come le case, le automobili. Come si può pensare che non vada in crisi l’industria dell’auto e che non crolli il mercato immobiliare se in appena dieci anni si perde 1 milione e 300mila potenziali acquirenti, il 18% di un’intera fascia di età?

Il paradosso dunque è solo apparente, perché siamo entrati in un circolo vizioso destinato a proseguire per molto tempo anche se ci fosse una sterzata improvvisa. Che comunque è indispensabile, se per l’Italia vogliamo avere un futuro. La sterzata significa porre la questione della natalità come una priorità assoluta della nostra politica economica, come del resto fece la Francia dopo la Prima Guerra Mondiale, che costò la vita a 1.400 mila suoi giovani: non a caso oggi la Francia ha ancora gli istituti demografici più importanti d’Europa.

Non si tratta di chiedere “premi” per la natalità, ma anzitutto eliminare quelle discriminazioni e quegli ostacoli che disincentivano nuove nascite. E soprattutto di rafforzare l’unico istituto che è l’ambiente ideale per concepire, far nascere ed educare le nuove generazioni: la famiglia. E’ chiaro infatti che la denatalità va di pari passo con la disgregazione della famiglia (il crollo delle nascite non è forse iniziato con la diffusione della contraccezione e l’introduzione del divorzio?). Rafforzare la famiglia naturale dunque – fondata sul matrimonio tra uomo e donna – dovrebbe essere la prima preoccupazione di un governo e di un presidente del Consiglio che si dichiara sconvolto dai dati sulla disoccupazione. E invece cosa succede? Che addirittura tutti i partiti in Parlamento si danno da fare per approvare il divorzio breve (vedi articolo a fianco), durissimo colpo alla rilevanza della famiglia nella società, così come la promozione degli stili di vita omosessuali. Insomma abbiamo una classe dirigente – specchio della società che la esprime, peraltro – schizofrenica, che da una parte si straccia le vesti per la disoccupazione e dall’altra promuove leggi e costumi che faranno peggio.