Discriminazioni contro Lgbt, la Cassazione anticipa la legge Zan
È tristemente istruttiva la sentenza della Corte di Cassazione di alcuni giorni fa che condanna l'avvocato Taormina a una sanzione pecuniaria per aver detto che non assumerebbe omosessuali nel suo studio.
È possibile discriminare una persona con tendenze omosessuali sul luogo di lavoro se questa persona non esiste e non lavora in nessun luogo? Secondo la Cassazione la risposta è affermativa: sì, la si può discriminare e chi lo fa deve pagare una bella somma a titolo di risarcimento del danno!
Il protagonista di questa vicenda - arrivata al suo epilogo alcuni giorni fa - è l’avv. Carlo Taormina, personaggio discusso e abituato ad esprimere le sue opinioni (talvolta discutibili) in pubblico senza diplomazia e in maniera assai decisa; quale trasmissione più adatta per le sue esternazioni del programma radiofonico “La Zanzara”, assai noto per i conduttori e per le modalità con cui i vari soggetti intervistati partecipano al programma?
Nel 2014 l’avv. Taormina interviene nella trasmissione e afferma “di non volere assumere e di non volersi avvalere della collaborazione, nel proprio studio, di persone omosessuali”: frase senza dubbio sgradevole, perché non si coglie il collegamento tra la tendenza omosessuale di una persona e la sua bravura come avvocato o come impiegato di uno studio legale, né l’avvocato Taormina lo aveva spiegato.
A fronte di questa esternazione, la Rete Lenford – un’associazione di avvocati che tutela, difende e promuove le persone con tendenze omosessuali – cita in giudizio l’avv. Taormina accusandolo di discriminazione sul luogo di lavoro e invocando il Decreto legislativo 216 del 2003, norma che garantisce “la parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età e dall'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione”. Quando sussiste una condotta discriminatoria, la legge permette al giudice civile di ordinarne la cessazione e di condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno.
Prontamente, il Tribunale di Bergamo condanna l’avv. Taormina al pagamento a favore della Rete Lenford della somma di euro 10.000 a titolo di risarcimento del danno; questa decisione è stata confermata dalla Corte di appello di Brescia e, pochi giorni fa, resa definitiva dalla Prima Sezione civile della Corte di Cassazione.
Sgombrando il campo da tutti i tecnicismi, andiamo alla sostanza della decisione. L’avv. Taormina si era difeso così: io ho espresso il mio pensiero, ma non ho esercitato alcuna discriminazione vietata dalla legge, perché non avevo intenzione di assumere nessuno nel mio studio (il fatto è pacifico); quindi, non esiste nessuna “persona offesa” dal mio comportamento, nessuno che aspirasse ad essere assunto nel mio studio e che io ho respinto perché mi sono accorto che aveva tendenze omosessuali. Di conseguenza, gli avvocati della Rete Lenford non rappresentano nessuno, se non loro stessi.
In effetti, la legge permette alle associazioni rappresentative di determinati interessi (come è certamente la Rete Lenford) di agire, ma solo in nome e per conto del soggetto discriminato oppure in caso di discriminazione collettiva, che riguarda molte persone.
Quindi, il nucleo effettivo della controversia era la libertà di manifestazione del pensiero, garantito dall’art. 21 della Costituzione: è possibile punire (in questo caso con una sanzione civile) colui che afferma pubblicamente che non ha intenzione di assumere persone con tendenze omosessuali, anche se si è limitato a dirlo in una trasmissione radiofonica di tipo satirico?
Vediamo come la difesa dell’avv. Taormina è stata sgretolata: vale la pena di comprenderlo, tenendo conto di quello che ci aspetta con la legge Zan.
In primo luogo – non sembra davvero un caso – la Cassazione, prima di decidere, ha chiamato in causa la Corte di giustizia dell’Unione Europea: sì, perché quella legge attuava una Direttiva dell’Unione e, quindi, la parola finale spetta all’Unione! Alla Corte UE viene chiesto di statuire se la Rete Lenford possa agire in giudizio e chiedere il risarcimento del danno, pur mancando un soggetto effettivamente discriminato sul luogo di lavoro. La Corte risponde: certo che può agire, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione nei confronti della “categoria” delle persone con un determinato orientamento sessuale e non sia identificabile una persona lesa!
Ecco che, con poche parole, la nozione di discriminazione cambia natura: non interessa più il singolo soggetto non assunto o licenziato ingiustamente o perseguitato sul luogo di lavoro per colpa di un atteggiamento ingiusto del datore di lavoro; ora è la “categoria” ad essere discriminata, se qualcuno prova a collegare in un discorso astratto le parole “lavoro” e “omosessuale”.
Ma cambia natura anche la Rete Lenford: da avvocati che tutelano gli omosessuali discriminati a pubblici fustigatori dei discorsi altrui, quasi dei “poliziotti dei costumi”, scrupolosi nell’esaminare e valutare i discorsi fatti e pronti ad ottenere la punizione pubblica di chi ha mostrato idee per loro inaccettabili (la condanna prevede anche la pubblicazione della sentenza su un quotidiano nazionale).
Ma quello che aveva detto la Corte di giustizia UE non era sufficiente; in effetti, i giudici europei avevano affermato che l’avv. Taormina poteva essere condannato per le sue dichiarazioni “purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico”: in altre parole, occorreva dimostrare che, in qualche modo, l’avv. Taormina avesse effettivamente esercitato una discriminazione nei confronti degli omosessuali quale datore di lavoro, in quanto titolare dello studio legale.
Questo “paletto” è stato abbattuto dalla Cassazione, secondo cui le dichiarazioni avrebbero “integrato espressioni idonee a dissuadere gli aspiranti candidati omosessuali dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell'odierno ricorrente, così ostacolandone e/o rendendo maggiormente difficoltoso l'accesso al lavoro”.
In altre parole: benché Taormina avesse espresso il suo pensiero e non avesse nessuna intenzione di assumere nessuno nel suo studio professionale, la sua dichiarazione alla radio avrebbe leso il diritto di qualche omosessuale (chi?) che pensava di chiedere di essere assunto presso il suo studio!
Restava l’ostacolo (apparentemente) maggiore: la libertà di manifestazione del pensiero: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, recita l’art. 21 della Costituzione. Siamo immersi in questa libertà da tanti decenni, è in forza di questa libertà che abbiamo sopportato tanti “cattivi maestri”, pronti a contrastare le idee sbagliate con il ragionamento, il convincimento, l’educazione dei figli; sappiamo bene che, insieme alla libertà di associazione e di riunione, quella di manifestare liberamente il proprio pensiero (cioè senza dovere pesare le parole una per una; senza dovere interrogarci se è il momento giusto di parlare o se qualcuno si può offendere) è la linfa della vita democratica.
Come supera questo ostacolo la Cassazione, il massimo giudice nazionale? Facendo riferimento all’opinione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Leggiamo: “La Corte UE ha rammentato che, in forza dell'articolo 52, paragrafo 1, della Carta, la libertà di espressione non è un diritto assoluto e il suo esercizio può incontrare delle limitazioni, purché esse siano previste dalla legge e rispettino il contenuto essenziale di tale diritto nonché il principio di proporzionalità, vale a dire siano necessarie e rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale riconosciuti dall'Unione o all'esigenza di tutela dei diritti e delle libertà altrui”. La Corte Europea come supremo interprete della Costituzione italiana!
L’avv. Taormina invoca la Corte Costituzionale? Nemmeno per sogno, risponde la Cassazione: “I principi elaborati dalla Corte di Giustizia […] appaiono perfettamente compatibili con quelli dell'ordinamento costituzionale italiano, nel quale la riconosciuta libertà di manifestazione del proprio pensiero con qualsiasi mezzo deve pur sempre essere contemperata con gli altri principi e diritti garantiti e tutelati dalla Costituzione e cioè i diritti inviolabili dell'uomo […], il principio di eguaglianza […], il diritto effettivo al lavoro e la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, ex art. e 35 Cost.”
In sostanza, chi è un potenziale datore di lavoro, deve stare attento a quello che dice in pubblico (solo in pubblico?) perché deve tenere conto che “la Repubblica tutela il lavoro” (art. 35 Cost.); insomma, per dirla con l’on. Zan, dovrebbe avere “un atteggiamento di prudenza”…
Cosa ci aspetta con la legge Zan, che punisce con la reclusione fino ad un anno e sei mesi l’incitamento alla discriminazione per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere e con la reclusione fino a sei anni (!) chi partecipa ad associazioni che hanno tra i propri scopi tale discriminazione? Pensiamo davvero di essere tutelati da quella clausola “salva idee” che permette – bontà sua! – la libera espressione di convincimenti e di opinioni “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori”? Il “concreto pericolo” di discriminazione sarebbe quello che è stato addebitato all’avv. Taormina?
E gli avvocati della Rete Lenford stanno già catalogando i nostri scritti e i nostri discorsi?
Infine una riflessione più di carattere generale. La vicenda giudiziaria che ha coinvolto l’avv. Taormina comprova alcuni fatti sia di carattere giuridico che culturale. Primo: i veri diritti sono le rivendicazioni di chi ha più potere politico, massmediatico, sociale etc. e non quelli scritti nella Costituzione. Detto in altri termini, l’omosessualità, la transessualità, lo stile di vita LGBT, le relazioni omosex etc. valgono di più, non solo socialmente ma anche giuridicamente, dei diritti scritti nero su bianco nella Costituzione.
Questi, poi, vengono stravolti nella loro interpretazione per asservirli alla causa arcobaleno. Potremmo definire questo fenomeno come cratocrazia: non è il diritto a comandare, bensì chi ha più potere in ambiti diversi da quello giuridico.
Secondo: con la legge Zan l’imposizione del credo LGBT per diventare effettiva non dovrà più fare le capriole giurisprudenziali che abbiamo sopra descritto, passando da tribunale a tribunale italiano per finire presso la Corte di Giustizia UE e peritandosi in esegesi giuridiche funamboliche. Sarà tutto più semplice.
La futura legge Zan sarà un’autostrada per le istanze del mondo arcobaleno.
Terzo: come le lobby LGBT nei decenni hanno lavorato culturalmente per cambiare l’orientamento valoriale della coscienza collettiva tanto da riuscire sia a mutare l’orientamento dei giudici sia a introdurre una legge come quella sulle Unioni civili e a far quasi approvare un Testo unico come quello proposto dall’on. Zan, così chi difende la sana antropologia costituita dall’identità maschile e femminile e la famiglia, al fine di vedere abrogate leggi inique e veder mutati gli orientamenti giurisprudenziali, dovrà tornare a lavorare alacremente nel campo culturale.
Perché le leggi e le sentenze sono spesso specchio del sentito comune. Taormina ha perso in tribunale perché ben prima tutti noi abbiamo perso a casa, in ufficio e a scuola.