Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
NAZIONI UNITE

Diritti umani, l'espulsione della Russia svela l'ipocrisia dell'ONU

Il 7 aprile l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato con 93 voti a favore, 24 contrari e 58 astensioni la sospensione della Russia dal Consiglio dei diritti umani. Il problema di fondo resta quello della composizione del Consiglio stesso, che è elettiva per aree geografiche e include le peggiori dittature del mondo. 

Esteri 12_04_2022
L'Assemblea Generale in sessione sulla Russia

Il 7 aprile l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato con 93 voti a favore, 24 contrari e 58 astensioni la sospensione della Russia dal Consiglio dei diritti umani, a causa “delle violazioni e degli abusi gravi e sistematici dei diritti umani” commessi in Ucraina. Mosca era nel secondo anno del suo mandato. Alla diffusione dell’esito, il vice ambasciatore russo all’Onu Gennady Kuzmin ha definito il voto “una iniziativa illegittima motivata politicamente” e ha annunciato la decisione del suo paese di lasciare il Consiglio. Questo ha reso l’uscita di Mosca definitiva, anche nel caso che l’Assemblea generale ritenesse in seguito di revocare la sospensione.

L’ultima volta che si è deliberata la sospensione di uno Stato dal Consiglio dei diritti umani era stato nel 2011 quando il provvedimento fu preso nei confronti della Libia a causa delle violenze sui manifestanti da parte delle forze fedeli all’allora presidente Muammar Gheddafi. In effetti, all’Onu iniziative come quella del 7 aprile sono rare mentre, considerando i requisiti richiesti per poter essere membri del Consiglio, si direbbe che dovrebbero essere poste spesso all’ordine del giorno dell’Assemblea generale.

Il Consiglio consiste di 47 Stati eletti per un mandato di tre anni dall’Assemblea con voto diretto e segreto: 13 africani, 13 dell’area Asia-Pacifico, 8 latino americani e caraibici, 7 occidentali (europei e altro) e 6 est europei. Nell’esprimere il voto l’Assemblea deve tener conto del contributo che gli Stati candidati dalle rispettive aree geografiche danno alla promozione e alla tutela dei diritti umani e dell’impegno che promettono di dedicare alla loro difesa. Quando viene eletto, ogni Stato si assume la responsabilità di garantire nel proprio territorio nazionale elevati standard di rispetto dei diritti umani.

Queste sono le condizioni per far parte del Consiglio dei diritti umani. Ma di fatto, scorrendo l’elenco degli Stati che di volta in volta lo compongono, è chiaro che non vengono tenute nel debito conto né fatte rispettare.  Adesso che, invece, l’Assemblea Generale ha coerentemente deliberato di sospendere la Russia, di oltre una decina di altri Paesi oggi membri del Consiglio si vorrebbe domandare perché siano stati eletti e come mai non siano ancora stati sospesi, magari dopo averli più volte ammoniti con fermezza.

Come è stata possibile, ad esempio, l’elezione del Venezuela, dal 2013 governato dal presidente Nicolàs Maduro e dove, da allora, i diritti umani sono violati senza pietà? L’elenco include esecuzioni extragiudiziali, detenzioni arbitrarie, torture, limitazioni alla libertà di espressione. La violenza diffusa e la povertà estrema creata dalle politiche economiche governative hanno indotto circa sei milioni di venezuelani a espatriare in condizioni quasi sempre disperate e li costringe a una esistenza da profughi quando il primo diritto umano è poter vivere in sicurezza e dignità nel proprio Paese.

La stessa domanda si pone per la Somalia in guerra dal 1991, smembrata, in parte sotto il controllo del gruppo jihadista al Shabaab,  Nessun segno di buona volontà arriva dai suoi leader capi clan indifferenti alle sorti della popolazione più volte colpita da carestia e soccorsa dalla comunità internazionale. La road map avviata nel 2004 per l’instaurazione, almeno su una parte del territorio nazionale, di istituzioni democratiche disposte ad assumere le responsabilità di governo è tuttora in gran parte irrealizzata. Solo la presenza di truppe internazionali contiene la minaccia jihadista e tuttavia gli al Shabaab mettono a segno frequenti attentati dinamitardi nella stessa capitale Mogadiscio.

Anche in Sudan i diritti umani sono violati nel modo più brutale. La conflittualità etnica è stata sempre sistematicamente istigata e continua a esserlo dalle leadership arabo islamiche al potere. Da tre anni il paese è in mano ai militari autori di due colpi di Stato: il primo nel 2019 ha deposto il presidente Omar al Bashir, il secondo nel 2021 ha rimosso i ministri civili del governo di transizione che avrebbe dovuto preparare il ripristino delle istituzioni democratiche. Da allora le proteste popolari ricorrenti sono represse dall’esercito che ha ordine di sparare ad altezza d’uomo. Tuttavia il Sudan continua a occupare un seggio al Consiglio dei diritti umani.

Poi ci sarebbero da richiamare ai loro impegni, e nel caso sospendere, il Qatar, Paese finanziatore dell’Isis, l’India, dove i nazionalisti indù sono sempre più protervi e minacciosi, il Camerun, dilaniato da un conflitto combattuto dalla minoranza anglofona discriminata, la Cina e i Paesi – Pakistan, Uzbekistan, Kazakistan, Malesia, Indonesia… – che perseguitano i cristiani.

Ma la reticenza a denunciare le violazioni dei diritti umani, tanto più se commesse da Paesi membri dell’organismo che più li dovrebbe tutelare, la tolleranza dell’Onu nei loro confronti e la sua sostanziale impotenza rispecchiano una situazione reale: una minoranza di paesi in cui, per quanto imperfettamente attuati, i diritti umani costituiscono il cardine su cui si fondano leggi, istituzioni e rapporti sociali, mentre nel resto del mondo si ammette a stento, mal volentieri, a volte per convenienza, che esistano diritti inerenti all’uomo, quindi universali e inalienabili, o addirittura lo si contesta.   

Lo stesso voto di sospensione della Russia, lungi dall’essere unanime, neanche è davvero rappresentativo della maggioranza dei Paesi membri. Ai 58 astenuti e ai 24 contrari vanno aggiunti i 18 paesi che non hanno partecipato al voto. In totale 100 Stati non hanno approvato la delibera. L’Africa non a caso è il continente che ha preso posizione più nettamente. Soltanto 10 Paesi africani su 54 hanno approvato la delibera di sospensione. Si conferma quindi e consolida la scelta di campo già espressa il 1° marzo quando all’Onu si è votata la condanna dell’invasione russa dell’Ucraina e i Paesi africani a favore sono stati 26. Cyril Ramaphosa, il presidente del Sudafrica, la più forte economia del continente, ha difeso il voto di astensione del suo governo dichiarando che il conflitto “ha messo in evidenza l’incapacità del Consiglio di sicurezza dell’Onu di svolgere il proprio mandato di mantenere la pace e la sicurezza internazionali”. Con i suoi cinque membri permanenti – ha aggiunto – il Consiglio di sicurezza è “obsoleto e non rappresentativo”.