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ORA DI DOTTRINA / 62 - LA TRASCRIZIONE

Dire il falso, con le parole e le azioni - Il testo del video

La trasgressione più grave dell'Ottavo comandamento è la menzogna, ovvero dire il falso con l'intenzione di ingannare. Costitutivo della menzogna è il voler dire una cosa non vera. Le tre categorie delle bugie: dannosa, giocosa e ufficiosa. Ci sono poi la calunnia, la maldicenza, la simulazione, la millanteria, l'ipocrisia.

Catechismo 26_03_2023

Continuiamo la spiegazione dell’Ottavo comandamento. La volta scorsa abbiamo dedicato una riflessione alla virtù della veracità e abbiamo chiesto “soccorso” a san Tommaso e alla sua Somma Teologica (ST). Oggi facciamo altrettanto, riprendiamo il filo conduttore che percorre san Tommaso nella ST relativamente alla veracità e vediamo nella quaestiones 110-113 (ST II-II), attraverso i suoi vari articoli, i vizi contrari alla veracità o verità. Preferisco soffermarmi su san Tommaso rispetto al Catechismo perché, a mio avviso, centra maggiormente quello che è il grande attacco alla verità e alla veracità, mentre il Catechismo presenta più sfumature, forse anche più ampie, ma è meglio prima focalizzarsi sulla questione centrale, per poi vedere gli altri aspetti, gli altri attacchi a questa virtù.

Con la quaestio 110 entriamo in quella che è la sostanza del divieto dell’Ottavo comandamento, cioè «non dire falsa testimonianza». Al primo posto san Tommaso pone la menzogna; nel Catechismo la trovate a partire dal numero 2482. Il Catechismo, citando il De mendacio di sant’Agostino, dice che «la menzogna consiste nel dire il falso con l’intenzione di ingannare» (CCC 2482). Nel numero successivo, il 2483, dice esplicitamente: «La menzogna è l’offesa più diretta alla verità. Mentire è parlare o agire contro la verità per indurre in errore». San Tommaso è perfettamente d’accordo, ovviamente, perché nel primo articolo della quaestio 110, concludendo la sua articolazione, dice che «è evidente che la menzogna si oppone direttamente e formalmente alla veracità». Dunque, agli antipodi della veracità c’è proprio la menzogna.

Ora, san Tommaso fa una precisazione, che invece non è chiarissima nel testo del Catechismo, quindi ci riferiamo a lui. Cioè, quello che è chiaro è che la menzogna non è una semplice bugia materiale. Questo perché posso dire una cosa falsa, quindi materialmente una bugia, pensando che sia vera; in questo caso ho una bugia materiale, ma non ho formalmente una menzogna, proprio perché manca l’intenzione di dire il falso. Al contrario, potrei invece dire una cosa vera, ma pensando che sia falsa, cioè volendo dire una bugia. E qui, per usare il linguaggio di san Tommaso, avremmo una verità per accidens, ma una menzogna formaliter; cioè in sostanza è comunque una menzogna in quanto il soggetto vuole dire il falso, vuole mentire, vuole dire una bugia, anche se poi, accidentalmente, dice il vero e non lo sa che invece è vero. Al contrario, uno può dire il falso non sapendo che è falso e, quindi, in questo caso non abbiamo una menzogna. È molto importante questo aspetto perché ci fa capire qual è il cuore della menzogna.

San Tommaso ci dice che ciò che è costitutivo della menzogna è proprio il voler dire una cosa non vera: «Se uno dichiara il falso credendo che sia vero, si ha una bugia materiale, ma non formale, essendo la falsità estranea all’intenzione di chi la dice». Quindi, vediamo che l’intenzione di dire il falso è il costitutivo della menzogna. «Perciò - continua giustamente san Tommaso - tale affermazione non ha vera e perfetta natura di menzogna: poiché le cose preterintenzionali sono per accidens e quindi non possono costituire delle differenze specifiche», cioè non sono il costitutivo che caratterizza quella cosa che è la menzogna. «Se uno dice il falso formalmente, cioè con l’intenzione di dire il falso, anche se ciò che dice è vero, questo suo atto, in quanto volontario e morale, di per sé contiene la falsità, e per accidens la verità». Una spiegazione lineare. «E quindi raggiunge la specie della menzogna»; quello che costituisce la menzogna in quanto tale, è quindi il voler dire il falso, il voler dire una bugia.

Si badi adesso a una precisazione, che chiarisce meglio un’affermazione che abbiamo trovato nel Catechismo, tratta da sant’Agostino, quella cioè sull’intenzione di ingannare. San Tommaso precisa: «L’intenzione di creare la falsità nell’opinione altrui con l’inganno, non è un elemento specifico della menzogna, ma ne è un complemento». Il costitutivo della menzogna è dire il falso, sapendo che è tale; se io lo dico, poi, con l’intenzione ulteriore di ingannare qualcuno, di creare la falsità nell’opinione altrui, come dice san Tommaso, questo è un di più, è un complemento, ma non è lo specifico. Lo specifico è appunto l’atto con cui io intendo dire il falso. La fondamentale precisazione che troviamo in Tommaso è che questo è ciò che dà la specie propria dell’atto. Le intenzioni ulteriori, fossero anche lodevoli, non cambiano la specie dell’atto. Andiamo a vedere questo aspetto.

Nell’articolo 2 della quaestio 110 san Tommaso ci dice in sostanza che il fine perseguito con la menzogna, quello che io voglio raggiungere dicendo una menzogna, aggrava o diminuisce la colpa, ma non cambia la specie. La specie è data appunto dalla menzogna, cioè dal dire il falso, sapendolo tale (o da dire il vero ritenendolo falso); quindi, è data dalla volontà di pronunciare una bugia. Questo punto di vista, riguardante cioè il fine perseguito con la menzogna, non cambia la specie, ma aggrava o diminuisce la colpa, come abbiamo detto. In riferimento a questo, san Tommaso propone tutta un’articolata tipologia di bugie che noi andiamo a sintetizzare nelle classiche tre categorie, ossia: la bugia dannosa, la bugia giocosa e la bugia ufficiosa.

La bugia dannosa è appunto quella di mentire con l’intento di ingannare una persona. Quindi, in questo caso, c’è questa intenzione sopraggiunta, di volere ingannare qualcuno, di volerlo depistare, di voler formare in lui, come dice san Tommaso, un’opinione falsa, su un fatto, una persona, ecc.

La menzogna giocosa, invece, che cos’è? Essa è ordinata, per così dire, a un bene dilettevole, cioè la si pronuncia per divertire o divertirsi. Allora, in questo caso, san Tommaso ci dice chiaramente che la menzogna rimane tale, non cambia la sua natura e quindi, in quanto tale, non può essere ordinata al bene, non può essere ordinata alla verità; rimane quindi una menzogna. Tuttavia, questa intenzione fa sì che la gravità di questa colpa, rispetto alla bugia dannosa, sia attenuata e dunque, in sostanza, san Tommaso ci dice che la bugia giocosa non è un peccato mortale, non è un peccato grave e, tuttavia, continua a rimanere un peccato, un disordine oggettivo.

Terzo, c’è la bugia ufficiosa, che è forse quella più diffusa, cioè il pronunciare una bugia, il mentire per un utile: evitare danni a me, al mio prossimo, all’ente X, alla credibilità di Tizio o di Caio. C’è un utile, dunque, per cui la bugia non è per danneggiare il prossimo come nella bugia dannosa. E tuttavia - ci dice san Tommaso - non cambia la specie propria: rimane una menzogna. L’intenzione, in questo caso, diminuisce la colpa rispetto alla bugia dannosa; anche in questo caso, non costituisce un peccato grave, tuttavia di nuovo è un peccato. La menzogna non è mai ordinabile a un bene e, quindi, è sempre un disordine.

In particolare san Tommaso - questo è molto interessante - ci dice che la menzogna sulle cose divine, cioè mentire riguardo a Dio, alla Rivelazione, al Signore, alle verità del dogma, ai Sacramenti, eccetera, contrasta sia con la virtù della veracità (chiaramente, essendo una menzogna), ma contrasta anche con la fede, perché contraddice i contenuti della fede; e contrasta anche con la virtù di religione. Da questo punto di vista, san Tommaso dice: una menzogna pronunciata nella sfera delle cose divine è un peccato gravissimo. È importante richiamare questo aspetto perché per noi questo è diventato un aspetto secondario, cioè, per noi, ormai, tutto quello che riguarda Dio e le cose di Dio è diventato, per così dire, materia veniale o addirittura nemmeno peccato, nella sfera dello scherzo…
Mentre non è così, perché si va a ingannare il prossimo, a creare una falsa opinione nel prossimo su qualche cosa che è estremamente importante, la cosa più importante di tutte: la verità su Dio, sulla salvezza eterna, sulla propria anima, eccetera. Dunque, vediamo come san Tommaso, da questo punto di vista, si distanzia dall’opinione comune. È chiaro che ogni volta che dico una menzogna in questo ambito (la verità su Dio e la salvezza eterna) io danneggio gravemente il bene della persona nella conoscenza e nella condotta morale, perché la posso deviare nella conoscenza di ciò che è più importante, cioè Dio, e della sua condotta morale.

Sono inoltre gravi le menzogne, ovviamente, quando c’è l’intenzione diretta di insultare Dio o l’intenzione diretta di provocare danno al prossimo; un danno lo si procura comunque, se poi c’è anche l’intenzione, chiaramente, si aggrava ulteriormente la colpa. Allo stesso modo è più grave quando si sa che si provoca uno scandalo, cioè una deviazione, un inciampo nella via del bene al prossimo o alla comunità ecclesiale o in generale al consorzio umano. Quindi, questo è per capire come per san Tommaso, che ne parla nell’articolo terzo della quaestio 110, la menzogna sia sempre un peccato, ma con queste gradazioni di aggravamento oppure di diminuzione della colpa, nel caso della bugia giocosa e di quella ufficiosa.

Prima di continuare con la Summa, diamo un’occhiata al Catechismo, giusto per completezza. Al n. 2476 si parla di falsa testimonianza e spergiuro, ma ne abbiamo già parlato nelle puntate precedenti. Al n. 2477 si specifica invece quella menzogna che in qualche modo lede la reputazione altrui, ossia la calunnia. Il Catechismo spiega che «si rende colpevole [...] di calunnia colui che, con affermazioni contrarie alla verità, nuoce alla reputazione degli altri e dà occasione a giudizi erronei sul loro conto».

Diverse dalla calunnia sono altre due specie morali indicate dal Catechismo, ossia il giudizio temerario e la maldicenza. Che cos’è il giudizio temerario? Il Catechismo lo definisce come un ammettere «come vera, senza sufficiente fondamento, una colpa morale nel prossimo» (CCC 2477). Quindi, io faccio sostanzialmente un giudizio temerario quando accuso il mio prossimo di qualcosa di cui non ho sufficiente fondamento: per esempio, lo accuso di avermi voluto ingannare, perché “mi sembrava che”, eccetera… insomma, non ho sufficienti elementi per dire che c’è stata una certa cosa. Diverso è l’errore di giudizio, che si ha quando si hanno degli elementi che si ritengono importanti, fondati, ma che in realtà non si rivelano così: in questo caso siamo quasi di fronte a un’ignoranza invincibile, per cui io stesso sono stato ingannato da testimonianze, relazioni di altri, eccetera.

Ulteriormente differente è la maldicenza, che il Catechismo definisce come il rivelare «i difetti e le mancanze altrui a persone che li ignorano», senza un motivo oggettivamente valido. La maldicenza non è un dire il falso, bensì è un dire il vero, ma rivelando appunto dei difetti, delle mancanze degli altri, senza avere una ragione grave per farlo. Per esempio, non posso rivelare una colpa occulta di una persona, (una colpa) che non ha una rilevanza sociale, se non c’è una ragione grave, valida; diverso è il caso, per esempio, di un omicidio, di cui sono testimone: in questo caso siamo tenuti a rivelarlo. Supponiamo che ci sia una persona che cade spesso rispetto al Sesto comandamento e vuole entrare in seminario; allora, con discrezione, bisogna far notare a chi lo deve accogliere che c’è un problema in quella sfera. Quindi, la maldicenza non è un dire il falso, è un dire il vero, ma che rivela delle mancanze di una persona senza un valido motivo e perciò espone la persona a una critica, a un giudizio altrui; questo è un peccato ed è tanto più grave quanto più grave è quello che io vado a rivelare della persona, che la può mettere in grave difficoltà. Da questo punto di vista, c’è un dovere di coprire le mancanze del nostro prossimo, a meno che non abbiano appunto una rilevanza tale da richiedere, per il bene comune, di essere denunciate alle legittime autorità, alle persone coinvolte o, in certi casi, anche pubblicamente, quando si tratta di cose gravi e già in qualche modo con una loro rilevanza pubblica. Questo è il succo degli articoli del Catechismo che non vengono trattati direttamente nella Summa.

Torniamo alla Summa, dove la quaestio 111 tratta della simulazione. Che cos’è la simulazione? San Tommaso lo spiega nel primo articolo: «È una certa menzogna attuata mediante il segno dell’azione esteriore». Dunque, è una menzogna, e quindi partecipa della malizia della menzogna, ma a differenza della “semplice” menzogna è realizzata attraverso azioni, atti esterni. Leggiamo il corpo dell’articolo 1 della quaestio. Dice san Tommaso: «Sono segni esteriori non soltanto le parole bensì anche i fatti. Come quindi è contro la veracità che uno esprima con le parole ciò che non pensa, cadendo nella menzogna, così è contro la veracità che uno esprima con segni consistenti in opere o cose il contrario di ciò che egli è in sé stesso». Ecco, questa è la definizione di simulazione e san Tommaso ulteriormente dice che la simulazione è una certa menzogna attuata mediante il segno dell’azione esteriore.

Attenzione: nella risposta alla quarta obiezione della quaestio 111, san Tommaso fa una precisazione importante (sulla simulazione) e cioè che tutto questo non equivale a dire che uno debba esprimere pubblicamente le proprie colpe; del tipo “ho rubato, e per non far finta di essere quello che non ruba, dico al mondo intero che ho rubato”. No. Leggiamo la risposta alla quarta obiezione: «Uno può nascondere il suo peccato senza simulazione. Ed è così che vanno intese le parole di S. Girolamo: “Il secondo rimedio dopo il naufragio è nascondere il proprio peccato”, perché cioè gli altri - aggiunge san Tommaso - non si scandalizzino». Per nascondere il peccato, qui, si intende nasconderlo pubblicamente quando non è necessario rivelarlo. Non si tratta di nasconderlo a Dio, nella Confessione. In certi casi, invece, quando c’è una colpa che ha una rilevanza importante sul bene comune è doveroso, a volte, che venga alla luce. San Tommaso non dice che è un simulatore colui che non rivela pubblicamente i propri peccati, no. È un simulatore colui che con degli atti “pronuncia” una menzogna. È il caso, per esempio, di un atto di idolatria, che, oltre ad essere contrario alla fede e alla religione, è anche una menzogna, perché esprime pubblicamente - tramite un gesto, tramite parole - una falsità. E anche se viene fatto con lo scopo di salvare la propria vita, per esempio, poco importa. La simulazione è quindi un qualsiasi atto che in qualche modo contribuisce a difendere la menzogna, a fare in modo che la menzogna continui a propagarsi, agendo come se la menzogna fosse vera.

Simile è l’ipocrisia. San Tommaso ne tratta nella stessa quaestio 111 e dice che è una simulazione particolare. Qual è la particolarità dell’ipocrisia? È una simulazione con la quale uno vuole fare una parte o assumere, per così dire, una personalità che non è vera. Per esempio, si vuole simulare una retta intenzione che non c’è o simulare una santità che non c’è. In questo senso, anche l’ipocrisia è un peccato. Ed è grave quando va contro la carità verso Dio e verso il prossimo.

Abbiamo poi la iattanza o millanteria; san Tommaso ne parla nella quaestio 112. La iattanza, come dice l’articolo 1, «consiste nell’innalzare sé stesso con le parole». Si contrappone, in questo senso, alla veracità. Ora, anche in questo caso, essendo una menzogna, può essere veniale o mortale, a seconda che offenda o meno la carità verso Dio o verso il prossimo; inoltre, quando deriva da superbia, da vanagloria, è grave. La iattanza, questo innalzare sé stesso con le parole o con gli atti può appunto provenire dalla superbia, dalla vanagloria e allora ha una gravità; oppure, a volte, può essere per voler ottenere un vantaggio, un guadagno, una reputazione: in questo caso è meno grave, a meno che non si danneggi gravemente qualcuno. Il criterio da considerare è sempre se c’è una grave mancanza di carità verso Dio o verso il prossimo.

In ultimo, e siamo alla quaestio 113, san Tommaso parla dell’ironia, in un modo molto diverso da come ne parla il Catechismo al n. 2481. Il Catechismo ne tratta come di quel che comunemente intendiamo come ironia nei confronti di una persona. Per san Tommaso, invece, l’ironia è un mentire sottovalutando sé stessi. Dunque, è una prospettiva completamente diversa. Cosa vuol dire? Vuol dire che io non posso dire il falso né per elevare me stesso, come nella millanteria e nella iattanza, né per deprimere me stesso. Posso tacere, tacere delle doti, tacere delle virtù, questa è umiltà; posso riconoscere, magari, solo i miei difetti, pubblicamente, e questo non è menzogna; ma non posso sottovalutare me stesso, come dice san Tommaso nell’articolo 1 della quaestio 113, «a scapito della verità». Cioè non posso arrivare a dire di me stesso, anche se è per sottovalutarmi, una cosa falsa, perché appunto la falsità non può mai essere ordinata al bene.

Dunque, abbiamo fatto un’ampia carrellata, abbiamo visto quante articolazioni ha questo comandamento. Dobbiamo imparare a essere più attenti. Può sembrare una cosa astrusa, difficile, ma in realtà si sintetizza in una cosa molto semplice, e cioè: dire il vero nei modi e nelle circostanze opportune.