Non dire falsa testimonianza - Il testo del video
Come per tutti i comandamenti il divieto indica il bene da tutelare, in questo caso la verità. L'uomo è naturalmente proteso alla verità ed è quindi chiamato a vivere conformemente alla verità. Cercare il vero è un obbligo morale. La virtù della veracità consiste nell'affermare la verità con le proprie parole e azioni.
Proseguiamo il nostro percorso con i Dieci comandamenti, iniziando l’Ottavo. La volta scorsa avevo dato come indicazione che avremmo proseguito con il Settimo, ma in realtà le tematiche restanti attengono alla Dottrina sociale della Chiesa e vengono già trattate dalla Nuova Bussola Quotidiana in altri contesti.
Andiamo dunque all’Ottavo comandamento, che prescrive: «Non dire falsa testimonianza». Il comandamento che vieta di dire falsa testimonianza - poi vedremo cosa ricade all’interno di essa - poggia, come tutti i comandamenti, su un bene. Un bene da proteggere, custodire e promuovere. È in quest’ottica che devono sempre essere visti e valutati i divieti dei comandamenti. In ogni comandamento troviamo questo tipo di impostazione. Per esempio, «non uccidere» è un divieto, un comando negativo che tutela un bene: il bene della vita, della persona. «Non rubare» tutela un bene, cioè il bene della proprietà, del frutto del proprio lavoro. Tutti i comandamenti hanno questa struttura. Dunque, non cadiamo nella trappola di chi dice che la Chiesa è negativa perché impedisce: l’impedire è l’altro lato della medaglia di un bene che si vuole custodire. È così, non c’è altra strada né altra possibilità.
Prendiamo il primo articolo, il 2464, che il Catechismo della Chiesa cattolica dedica all’Ottavo comandamento. Qui troviamo sintetizzato quanto appena detto: «L’ottavo comandamento proibisce di falsare la verità nelle relazioni con gli altri. Questa norma morale deriva dalla vocazione del popolo santo ad essere testimone del suo Dio il quale è verità e vuole la verità. Le offese alla verità esprimono, con parole o azioni, un rifiuto di impegnarsi nella rettitudine morale: sono profonde infedeltà a Dio e, in tal senso, scalzano le basi dell’Alleanza» (CCC 2464).
Questo, dunque, è il quadro generale. C’è un comando che proibisce qualcosa, c’è un bene, cioè questa vocazione del popolo santo, che potremmo allargare alla vocazione dell’uomo, a testimoniare Dio, testimoniare la verità. Dio è la verità e dunque le offese contro la verità sono un’offesa di questa testimonianza che dobbiamo a Dio, alla verità, e pongono le basi per un’infedeltà: sono un’infedeltà a Dio stesso, anche quando manchiamo di verità nei confronti di una persona. C’è sempre questo legame, per cui il peccato, anche quando viene commesso contro noi stessi o contro un’altra persona, è sempre rivolto contro Dio.
Il n. 2464 del Catechismo mette dunque in luce sia l’aspetto negativo che l’aspetto positivo del comandamento: ciò che è proibito e ciò che invece deve essere raggiunto mediante la virtù, il bene proprio che viene protetto dal divieto.
Nei numeri successivi, in particolare nel n. 2467, c’è una riflessione molto ben fatta sulla vocazione dell’uomo alla verità. In questo articolo si capisce perché questo comandamento è la protezione di un bene dell’uomo: «L’uomo è naturalmente proteso alla verità». Questa frase, già di per sé, aprirebbe una riflessione molto ampia di natura filosofica: l’uomo è proteso al vero, il bene di quella facoltà dell’uomo che è l’intelletto, è il vero. L’intelletto è per il vero. Ed essendo l’intelletto una dimensione costitutiva dell’uomo, l’uomo è chiamato a cercare la verità, a trovare la verità e poi a vivere conformemente alla verità. Infatti il Catechismo prosegue: «Ha il dovere di rispettarla e di attestarla: “A motivo della loro dignità tutti gli uomini, in quanto sono persone, [...] sono spinti dalla loro stessa natura e tenuti per obbligo morale a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità conosciuta e ordinare tutta la loro vita secondo le esigenze della verità”» (CCC 2467).
Questa, riportata dal Catechismo, è una citazione della dichiarazione Dignitatis humanae, un passo della dichiarazione conciliare molto dimenticato da quanti difendono la libertà religiosa, come se fosse una libertà di fare e pensare quel che si vuole. Dal testo della DH vediamo invece che c’è un fondamento, dettato dalla natura dell’uomo, che costituisce un obbligo morale, cioè cercare il vero, un obbligo morale a cercare la verità. La falsità non ha mai diritti, né la persona può rivendicare un diritto a vivere senza cercare il vero. Di nuovo, vediamo due passaggi fondamentali: l’obbligo morale a cercare la verità e l’obbligo ad aderire alla verità conosciuta. Questo è proprio della natura dell’uomo e da qui scaturisce un vero e proprio obbligo morale. Quando l’uomo non ha questa tensione alla verità, quando l’uomo fa precedere altre motivazioni, altre “ragioni” a quella della ricerca del vero e a quella - è il secondo passaggio - dell’adesione alla verità, quando l’uomo non fa questo, manca gravemente a quella che è la propria natura e, dunque, manca gravemente a un obbligo morale. Questo è il sostrato su cui poggia l’Ottavo comandamento.
Ora, questa ricerca e quindi questa adesione alla verità implica la veracità. Il Catechismo, al numero successivo, il 2468, definisce la veracità come «la virtù che consiste nel mostrarsi veri nei propri atti e nell’affermare il vero nelle proprie parole (...)». Dunque, poiché c’è un obbligo morale nell’uomo, dato dalla sua natura, di ricercare la verità e di vivere in conformità ad essa, una virtù propria dell’uomo è quella della veracità, che a volte viene chiamata anche verità; preferisco il termine veracità, per non confonderla con il concetto di verità, che indica invece l’adaequatio, l’adeguazione dell’intelletto alla realtà. La veracità, invece, è una qualità virtuosa propria del soggetto che cerca la verità e vive in conformità alla verità. Dunque, teniamo il termine veracità per non creare confusione.
Questa veracità è una virtù, un abito della persona, che consiste nell’affermare la verità tramite le proprie parole e le proprie azioni, perché la verità può essere affermata o negata anche con degli atti, non solo tramite quello che diciamo, ma anche con dei silenzi e altri atteggiamenti. Questa è, in sintesi, la virtù della veracità. San Tommaso ne parla, come il Catechismo, quale un habitus della persona: habitus indica qui l’essere abitualmente teso alla ricerca del vero e abitualmente teso a vivere secondo la verità conosciuta. Questa è la virtù cardine da coltivare e da proteggere mediante l’esclusione dei suoi opposti, e ciò è precisamente il contenuto negativo del comandamento, ossia escludere tutto quello che offende la virtù della veracità, come la menzogna, la simulazione, eccetera.
Vediamo dunque cosa ci dice san Tommaso, sulla virtù della veracità, nella Summa Theologiae, che abbiamo imparato a conoscere, “saccheggiando” (con varie citazioni) questa opera monumentale e meravigliosa della dottrina cattolica. Siamo nella II-II, cioè nella seconda parte della seconda parte della ST, alla quaestio 109, che è dedicata interamente alla virtù della veracità. San Tommaso riprende in modo più stringato, la definizione che dà il Catechismo, e definisce, nel primo articolo della quaestio, la veracità come «quella disposizione per cui uno dice il vero». Una disposizione a dire il vero, a comunicare il vero. Il Catechismo aggiunge anche l’aspetto della comunicazione non verbale, è un completamento della stessa prospettiva.
Essendo un atto virtuoso, occorrono - come per tutti gli atti virtuosi - le cosiddette debite circostanze. Nella risposta alla seconda obiezione del primo articolo, san Tommaso ci dice: «Dichiarare le cose proprie in quanto ciò costituisce una manifestazione della verità è per sua natura un bene. Ma ciò non basta a farne un atto di virtù: poiché a ciò si richiede che l’atto sia rivestito delle debite circostanze, senza delle quali è vizioso» (II-II, q. 109, a. 1, ad 2). Una virtù è una virtù appunto quando tiene conto anche delle debite circostanze.
Adesso vediamo che cosa significa. Continua san Tommaso: «E in base a ciò è riprovevole lodare sé stessi senza i debiti motivi». Per esempio, uno può dire il vero su sé stesso, ma si elogia senza che ci sia una ragione, per manifestare dei pregi di sé stesso; in questo caso la veracità diventa inopportuna, perché evidentemente diventa una mostra gratuita di sé stessi. «Come pure - aggiunge san Tommaso - è riprovevole che uno parli apertamente dei propri peccati, come per vantarsene, oppure che ne parli senza alcuna utilità». Uno ha fatto un peccato e dice che lo ha fatto: c’è verità in quello che dice e, tuttavia, a volte può essere fortemente inopportuno dire apertamente un peccato compiuto, tanto più se uno lo fa con il fine di vantarsene; altre volte può essere anche una mancanza di discrezione.
La virtù quindi richiede sempre un debito modo e delle debite circostanze. Ancora San Tommaso insegna, in risposta alla terza obiezione, che si dica «il vero quando e nella misura in cui è opportuno» (ad 3). Ci possono essere delle circostanze in cui non è opportuno dire la verità; il che non significa che siamo autorizzati a dire il falso: vuol dire che a volte si può e si deve anche tacere. Infatti, si può eccedere nel dire il vero «quando non occorre». Oppure si può difettare nel nascondere ciò che si deve manifestare.
Esiste dunque un eccesso e un difetto, cioè dire il vero quando non occorre, perché è inopportuno, perché rischia di mettere in cattiva luce la persona che parla, perché si dicono dei peccati che magari possono scandalizzare qualcuno o si svelano delle cose che metterebbero in difficoltà altre persone; in queste situazioni non sono tenuto a dire la verità, non è il momento, non è la situazione per farlo. Oppure, dall’altra parte, per difetto, nel nascondere ciò che invece si è tenuti a manifestare. Il caso classico, come vedremo, è quello della confessione della fede o della confessione della verità, quando questa serve affinché le persone non si disorientino in una situazione confusa, oppure per difendere l’innocenza, la buona fama di qualcuno. Questo indica appunto che la veracità non è data dal dire sempre il vero, ma dal dirlo nel modo e nel tempo opportuno.
Attenzione: il termine “opportunità”, qui, non deve essere inteso nel senso del ragionamento “se ci rimetto o non ci rimetto”, perché altrimenti non parliamo più di una virtù. Va inteso invece inteso valutando se la situazione in sé stessa richieda che si taccia oppure che si parli e non in relazione a ciò che mi potrebbe costare un silenzio o una parola; perché altrimenti scansiamo alla radice la virtù e scansiamo alla radice il martirio. Molte volte il martirio è stato motivato da una verità detta nel momento in cui occorreva dirla, ma che per la persona si è rivelata in qualche modo un boomerang, quanto al bene della sua vita biologica. Ma ciò invece diventa un atto virtuoso perché apre a un bene superiore.
Torniamo di nuovo al Catechismo che, al n. 2469, riprende questa idea fondamentale di san Tommaso e in alcune parti la cita. In particolare dice: «La veracità rispetta il giusto equilibrio tra ciò che deve essere manifestato e il segreto che deve essere conservato: implica l’onestà e la discrezione» (CCC 2469). È chiaro che se mi viene affidato un segreto e io lo dico, ho sì detto la verità, ma violando un segreto che chiedeva di essere custodito come tale.
Allora, è interessante che san Tommaso, nel terzo articolo della quaestio 109 ponga la veracità come una virtù annessa alla virtù della giustizia. Che cos’è, in sostanza, la virtù della giustizia? È il rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto. San Tommaso riflette su tale questione: in che senso dobbiamo agli altri la verità? Nel terzo articolo della quaestio 109, in risposta alla prima obiezione, in un passaggio che è pure citato al n. 2469 del Catechismo, dice: «Gli uomini non potrebbero convivere senza credersi reciprocamente» (II-II, q. 109, a.3, ad 1). Il dirsi la verità è la base del tessuto sociale; la società diventa un inferno quando la “normalità”, il normale modus operandi non è più quello di dirsi il vero, ma quello appunto di ingannarsi; ciò, come dice san Tommaso, rende impossibile la convivenza umana.
Se pensiamo alle relazioni primitive, cioè le prime relazioni che il bambino ha con i propri genitori, con i fratelli e le sorelle, i propri parenti, poi man mano con gli amici, etc., sono tutte relazioni basate sulla fiducia che l’altro ci dica il vero, che non inganni. E quando queste relazioni vengono minate, più si va indietro nella struttura di queste relazioni (cioè si va a quelle originarie), e più la persona si destruttura. Questi sono fenomeni psicopatologici anche molto gravi, che nascono proprio da questo tradimento della fiducia e da questa non trasmissione della verità nei rapporti fondamentali.
In particolare, il Catechismo della Chiesa cattolica, dal n. 2471 al n. 2474, ricorda che abbiamo il dovere della verità per quanto riguarda la religione e la fede, come ricordava anche Dignitatis Humanae: la ricerca della verità, soprattutto nell’ambito della religione, è un obbligo morale. Ne consegue che è maggiore il dovere di verità proprio negli ambiti più importanti, come quello della fede. Ed ecco perché, in questo secondo raggruppamento del Catechismo, ci sono questi quattro articoli dedicati appunto a «rendere testimonianza alla verità». Leggiamo il n. 2471, che li riassume tutti:
«Davanti a Pilato Cristo proclama di essere venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Il cristiano non deve vergognarsi «della testimonianza da rendere al Signore» (2 Tm 1,8). Nelle situazioni in cui si richiede che si testimoni la fede, il cristiano ha il dovere di professarla senza equivoci, come ha fatto san Paolo davanti ai suoi giudici. Il credente deve «conservare una coscienza irreprensibile davanti a Dio e davanti agli uomini» (At 24,16)» [CCC 2471].
Vediamo dunque che, secondo giustizia, noi siamo tenuti a dare a ciascuno il suo. Essendo la vocazione dell’uomo quella di conoscere il vero, noi dobbiamo agli altri la testimonianza della verità: tanto più la dobbiamo in quella dimensione che riguarda la salvezza eterna degli uomini, che è la dimensione della fede. Dunque, se noi non diamo questa testimonianza di verità, non comunichiamo il vero - come dice san Tommaso, a modo e tempo debito, secondo le debite circostanze - quando queste circostanze ci chiedono di farlo e non lo facciamo, stiamo mancando gravemente non solo alla nostra vocazione, ma anche a un dovere verso gli altri; e manchiamo anche direttamente, come detto all’inizio, nei confronti di Dio che è la verità.
Dunque, la veracità è quella virtù che, man mano che viene coltivata, man mano che diventa veramente un habitus della persona, scansa tutte quelle che sono le false argomentazioni che ci porterebbero magari a tacere per non avere dei problemi, a dire la falsità per non perdere il posto di lavoro, a dire una cosa non vera per non perdere un’amicizia: tutte queste deviazioni vengono, come dire, spazzate via, scansate dall’agilità interiore che ci viene data dalla virtù della veracità, che deve essere chiaramente coltivata dall’uomo.
Il Catechismo parla, al n. 2473, della testimonianza suprema del martirio, che viene chiamata «la suprema testimonianza resa alla verità della fede»: è suprema perché nasce da una disposizione dell’uomo, ma non basta questa disposizione, ci vuole anche una grazia dall’alto. Non c’è una rottura tra una disposizione virtuosa e l’intervento della grazia, anzi c’è una sinergia, una sintonia. Se noi non coltiviamo questa virtù della veracità, quando siamo messi alle strette, quando siamo in difficoltà, quando la testimonianza della verità richiede qualche cosa di eroico o vicino all’eroismo, è chiaro che facilmente retrocediamo e preferiamo dei silenzi che diventano dei silenzi di complicità e che mancano al dovere di verità nei confronti del nostro prossimo; o diventiamo complici perché diciamo il falso, accettiamo il falso e a nostra volta lo rilanciamo, diventiamo la cinghia di trasmissione della falsità; o ancora magari invece non ci rendiamo conto che a volte la verità richiede di non essere detta in alcune circostanze.
Questa virtù della veracità ci aiuta proprio a scegliere il famoso giusto mezzo della virtù - non il giusto mezzo del compromesso - e adempiere quindi la vocazione propria dell’uomo, altissima, a conoscere il vero e a vivere secondo la verità, adeguarsi alla verità, comunicare la verità.
La prossima volta vedremo quelli che sono gli attacchi a questa virtù e quindi il contenuto più proprio dell’Ottavo comandamento, la sua parte in “negativo”, ossia che cosa esso proibisce.