Dimmi che birra fai e ti dirò che Paese sei
Bevanda bollita, era la salvezza in un mondo nel quale l’acqua era spesso contaminata e il vino a disposizione di pochi. Anche per questo si diffuse ad opera dei monasteri che furono i datori di lavoro di milioni di operai. Dove fu sostituita da superalcolici di dubbia provenienza furono danni sociali a non finire. La birra definisce il carattere di un popolo e le sue peculiarità, per questo ci sono Paesi dove è più buona che in altri.
Sono molto grato alla Nuova Bussola Quotidiana di aver pubblicato il bellissimo articolo di Liana Marabini dedicato alla birra. Bevanda apparentemente volgare e banale ma, come dimostra l’articolo sopra citato, ricca di storia e di spunti interessanti.
La birra, ad esempio, racconta la storia del vecchio continente. Da sempre bevanda dei poveri, consumata in età medievali in litri al giorno, il «pane liquido» (i suoi ingredienti sono gli stessi del pane) ha dato sostentamento a un numero infinito di cristiani. Bevanda bollita, era la salvezza in un mondo nel quale l’acqua era spesso contaminata e il vino – costoso – a disposizione di pochi.
Anche per questo si diffuse ad opera dei monasteri che, per secoli, furono i datori di lavoro di milioni di operai; se ne accorsero gli inglesi, che per primi espropriarono le proprietà ecclesiastiche in seguito alla «riforma anglicana» e si trovarono per secoli assediati da torme di poveri. L’invenzione di sostituire il gruit (un insieme di erbe) con il luppolo, diffusa da santa Ildegarda, contribuì a rendere questa bevanda ancora più sicura (il luppolo ha proprietà antisettiche). Dove fu sostituita da superalcolici di dubbia provenienza (il gin a Londra, la vodka in Polonia), furono danni sociali a non finire.
La birra definisce anche il carattere di un popolo. Le attuali birre inglesi sono frutto della mentalità industriale commerciale di quel popolo: sia le IPA (Indian Pale Ale, nomen omen), tanto di moda fino a poco fa; che le bitter, ma in genere tutte le birre chiare. Furono gli inglesi, infatti, ad inventare un nuovo metodo per bloccare la germinazione dell’orzo utilizzando l’aria calda al posto del fuoco. L’industrializzazione birraria inglese condizionò l’arte brassicola di tutto il continente. Di derivazione britannica, infatti, sono le pils ceche e le sue discendenti tedesche (pilsner, dortmunder); e le teutoniche märzen, octoberfestbier, vienna e münich. E tutte queste sono comunque oro, rispetto alla classica lager tedesca che tutti conosciamo nella versione industriale globalizzata; birra che è il triste frutto dell’«editto della purezza» del 1516, provvedimento così luterano che di più non si può.
La birra polacca resistette fino al comunismo; dopodiché tutti i birrifici vennero nazionalizzati e industrializzati (dopo il 1992, regalati alle solite multinazionali). Resta, immutata e splendida, la Pivo Grodziskie, la birra di Grodzisk Wielkopolski, di frumento affumicata, per nulla acida né amara, limpidissima. Andrebbero citate anche le birre dei monaci di Tyniec, monastero benedettino vicno a Cracovia, che ha rimesso in produzione birre secondo antiche ricette medievali ritrovate (secondo l’immancabile leggenda) chissà dove e chissà come. Il resto dei birrifici artigianali polacchi, con la solita dipendenza culturale dagli USA, si sono buttati a fare birre sullo stile yankee.
Certo, dobbiamo agli statunitensi la rinascita birraria europea. Ma hanno dovuto rovinare tutto con la loro solita propensione ad esagerare: troppo amare o troppo tropicali, le loro birre vengono definite in gergo «disneyland beer».
Non ci resta che il Belgio, paradiso della birra e, guardacaso, nazione dalle profonde radici cattoliche assediato dal protestantesimo. Lì si che si possono gustare (magari con viaggi avventurosi che aiutano a dare magia alla bevuta) birre trappiste, universalmente considerate le migliori al mondo (concordo); incredibile birre a fermentazione mista (flemish red o oud bruin); o scioccanti birre a fermentazione spontanea (lambic, kriek, geuzee) che strappano ai soliti bevitori di birra industriale la solita, cafonissima affermazione: «Questa non è birra!».
A questo punto il lettore potrebbe pensare che, oltre alla storia, alla birra sia legata la geografia. A qualcuno potrebbe venire in mente il concetto vinicolo di terroir. Nel senso più banale e ristretto della parola, il terroir non si può applicare alla birra (come, forse, non si può applicare al vino). I luppoli vengon scelti in base al risultato desiderato, così come l’orzo; nessuno utilizza luppoli e orzi autoctoni. L’acqua, direte? Si, l’acqua è importante e contribuisce al carattere della birra. Plzen, in Repubblica Ceca, e Barton upon Trent, in Inghilterra, devono senz’altro alla loro acqua il successo delle loro birre. Tuttavia, oggigiorno, con un impianto osmotico e pochi sali si più ottenere qualsiasi acqua si desideri. Tuttavia potremmo intendere la parola terroir in senso più ampio; in modo che comprenda non solo il clima e i microorganismi (il lambic, si dice, è possibile ottenerlo solo nel Pajottenland, a sud ovest di Bruxelles). Ma anche il genius loci, che si manifesta nella mentalità dei produttori che applicano alcune tecniche invece di altre, che lavorano in un certo modo piuttosto che in un altro.
In questo senso la parola coltura (orzo, frumento, luppolo) e cultura tornano ad essere un tutt’uno, come nella loro radice latina colere, coltivare. Allora si capisce meglio perché le birre britanniche sono come sono, così come le birre teutoniche. Si capisce la complessità e la ricchezza delle birre trappiste, che nascono e maturano nel silenzio dei monasteri. E si capisce il successo della birra artigianale italiana. Ecco: se ci limitiamo al senso ristretto della parola terroir (territorio), abbiamo le IGA (italian grape ales) e le birre alle castagne: tipiche, d’accordo, ma poco significative. Il genio italiano si manifesta nella rielaborazione di stili birrari nati altrove che hanno trovato una nuova e più vitale interpretazione in italia; ma questo lo comprendiamo solo se la parola terroir diventa sinonimo di cultura.
In questo caso, allora dovremmo pensare che gli statunitensi dovrebbero tornare a fabbricare Coca Cola e lasciassero fare la birra ai belgi. Ovviamente questo varrebbe anche per gli italiani: bravi, bravissimi birrai. Ma il genius loci del nostro paese si è sempre espresso attraverso un’altra bevanda fermentata: il vino. È questa bevanda un vero e proprio distillato di mediterraneità, di Italianità. È la nostra tradizione.
Terroir, cultura, tradizione: il cerchio è chiuso. Prosit.