Diffamazione, più equità nei giudizi
La Commissione Giustizia ha ripreso in mano l’esame del disegno di legge sulla diffamazione, per eliminare la reclusione per i giornalisti che abbiano commesso il reato. Ma non servirà a molto una nuova legge se ad applicarla saranno anche magistrati accecati dall'odio ideologico.
La Commissione Giustizia della Camera ha ripreso in mano l’esame del disegno di legge sulla diffamazione, con il dichiarato scopo di eliminare la reclusione per i giornalisti che abbiano commesso questo reato. Non è certamente il primo tentativo in materia. Già nelle precedenti legislature le forze politiche hanno tentato di trovare un’intesa per riformare la materia, ma il gioco dei veti incrociati ha sin qui impedito che si arrivasse a un traguardo condiviso.
La base di partenza di un dibattito che si annuncia comunque articolato e dall’esito incerto è rappresentato da un testo della XIV legislatura, che cancella la pena detentiva da sei mesi a tre anni e introduce la sola sanzione pecuniaria da 1.500 a 6.000 euro (da 3.000 a 8.000 se c’è l’attribuzione di un fatto determinato). Ma le posizioni dei diversi attori politici non sono facilmente componibili e riconducibili a sintesi. Si va da chi considera la diffamazione a mezzo stampa un reato di opinione e quindi, se non da azzerare, almeno da ridimensionare sensibilmente, a chi sostiene che, in casi estremi, a fronte di un’inaudita gravità del fatto compiuto, si potrebbe altresì immaginare un ricorso alla pena detentiva anche per i giornalisti.
Per affrontare il tema, però, è necessario un sano equilibrio tra la tutela della libertà d’informazione e il rispetto delle persone vittime di diffamazione. Che la minaccia di querele per diffamazione finisca per limitare la circolazione di notizie utili alla collettività può anche essere, anzi è. In questo senso, una nuova normativa dovrebbe prevedere una sanzione per il querelante, se la querela di chi si ritiene offeso sia ingiustificata (“temeraria”). Però andrebbe altresì previsto che il giornalista divulgatore di un fatto falso e disdicevole, consapevolmente o per un errore ingiustificabile, che sfregia in modo a volte irreparabile la reputazione altrui, debba essere punito in modo esemplare. L’azione penale, secondo una proposta formulata nei giorni scorsi, dovrebbe poter essere promossa solo contro chi diffonde fatti falsi e lesivi.
La riforma della diffamazione passa altresì attraverso una rivalutazione dello strumento della rettifica, che, in alcuni casi, potrebbe anche arrivare a bloccare l’azione penale, rendendola superflua. Ma la rettifica dovrebbe essere tempestiva, visibile, articolata e senza replica, ove si pubblichi su richiesta dell’interessato. Potrebbe a quel punto essere processato solo chi divulga notizie false e non le rettifica e devoluta la liquidazione degli eventuali danni residui, anche quelli che derivano dall’insulto gratuito, al giudice civile, fissando un tetto massimo al risarcimento, almeno di quelli morali. Questa a grandi linee la proposta formulata da Caterina Malavenda, uno degli avvocati più competenti in materia.
Bisognerebbe tuttavia valutare se la rettifica possa sempre e comunque risultare esaustiva del risarcimento, considerato che la circolazione di alcune notizie diffamatorie, amplificata a dismisura nella Rete, può produrre comunque danni al soggetto o ai soggetti lesi, sia pure per un lasso di tempo limitato, indipendentemente dalla successiva rettifica. C’è chi legge solo la notizia denigratoria e non legge la rettifica, per cui ha una percezione deformata di quei fatti. I motori di ricerca richiamano sempre e comunque anche la notizia diffamatoria, sia pur rettificata successivamente. Tutto questo non consente una piena riabilitazione del soggetto leso, nonostante il pieno ristabilimento della verità.
Resta da vedere quale sarà l’atteggiamento in Commissione giustizia dei parlamentari grillini, dopo le accuse, assai pesanti e irriguardose, rivolte al mondo dell’informazione dal loro leader. Dopo i casi Sallusti e Mulè, da una parte emerge nitidamente il “partito dei direttori”, che vorrebbe cancellare la norma sulla responsabilità del direttore per omesso controllo, circoscrivendola ai soli articoli non firmati; dall’altra, emerge comunque il sistema di “due pesi e due misure” adottato dalla magistratura giudicante, che applica, per casi analoghi, trattamenti più o meno morbidi a seconda dei soggetti chiamati a rispondere di diffamazione. La partigianeria di taluni giudici ha portato spesso a giustificare lesioni dell’onore e della reputazione di soggetti pubblici e privati che, a parti invertite, sono invece state pesantemente sanzionate. Per non parlare degli articoli nei quali ad essere criticati erano i giudici. I giornalisti che si sono permessi di farlo ne hanno pagato le conseguenze.
Non servirà a molto una nuova legge sulla diffamazione se ad applicarla in modo non imparziale saranno anche magistrati accecati dall’odio ideologico verso qualcuno o verso un’area culturale e politica del Paese. La libertà di manifestazione del pensiero sancita all’art.21 della Costituzione dev’essere uguale per tutti, indipendentemente dalle notizie diffuse, dalle opinioni espresse e dalle testate giornalistiche che le ospitano.