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Di Leone XIII riscopriamo la Immortale Dei

Avendo preso Prevost il nome di Leone, tutti hanno citato Leone XIII per la Rerum Novarum, ma di papa Pecci è bene invece ricordare l'enciclica Immortale Dei, perché chiarisce bene dove intende andare a parare con il resto del suo Magistero.

Ecclesia 10_06_2025

La scelta di Prevost del nome di Leone XIV ha fatto, giustamente, pensare che intendesse richiamarsi a Leone XIII, papa Pecci. E di Pecci tutti, dico tutti, hanno pensato, quasi per forza di cose, all’enciclica Rerum novarum, quella che, secondo certa vulgata progressista, “aprì” finalmente la Chiesa alla questione operaia e inaugurò la c.d. Dottrina Sociale.

Ma entrambe le affermazioni sono errate, anche se, da un punto di vista propagandistico, il titolo Rerum novarum (cose nuove, novità) ha indotto ad acclamare la pretesa “apertura” dopo duemila anni di “chiusura”. Come al solito, però, basta andare a leggere il documento per scoprire che la terza parola dopo rerum novarum è cupiditas. Cioè, la “smania di novità”, che come tale viene decisamente condannata. Infatti, la Chiesa non ha certo avuto bisogno dell’avvento del marxismo per occuparsi degli operai, degli ultimi, degli emarginati, dei malati e di tutti i bisognosi possibili e immaginabili.

Leone XIII produsse molte encicliche, tra cui la fondamentale Immortale Dei, che chi scrive spera di cuore che papa Prevost abbia preso in considerazione quando scelse il suo nuovo nome. Infatti, il Leone precedente non è solo quello della Rerum novarum. E, anzi, proprio la Immortale Dei chiarisce il suo pensiero e anche dove voleva andare a parare col resto del suo magistero. Veniamo al punto. “Medievale” è ormai entrato nell’uso come termine dispregiativo, sinonimo di arcaico, arretrato e incivile. Tuttavia, proprio la Cristianità medievale è l’unico esempio storico di tentativo, riuscito, di fondare una civiltà su valori più alti.

Parola di Leone XIII: «Vi fu un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava la società: allora la forza della sapienza cristiana e lo spirito divino erano penetrati nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in ogni ordine e settore dello Stato, quando la religione fondata da Gesù Cristo, collocata stabilmente a livello di dignità che le competeva, ovunque prosperava, col favore dei Principi e sotto la legittima tutela dei magistrati; quando sacerdozio e impero procedevano concordi e li univa un fausto vincolo di amichevoli e scambievoli servigi». E siamo nella Immortale Dei, che così continua: «La società trasse da tale ordinamento frutti inimmaginabili, la memoria dei quali dura e durerà, consegnata ad innumerevoli monumenti storici, che nessuna mala arte di nemici può contraffare od oscurare. Il fatto che l’Europa cristiana abbia domato i popoli barbari e li abbia tratti dalla ferocia alla mansuetudine, dalla superstizione alla verità; che abbia vittoriosamente respinto le invasioni dei maomettani; che abbia tenuto il primato della civiltà; che abbia sempre saputo offrirsi agli altri popoli come guida e maestra per ogni onorevole impresa; che abbia donato veri e molteplici esempi di libertà ai popoli; che abbia con grande sapienza creato numerose istituzioni a sollievo delle umane miserie; per tutto ciò deve senza dubbio molta gratitudine alla religione, che ebbe auspice in tante imprese e che l’aiutò nel portarle a termine».

La citazione è lunga, ma parla meglio del sottoscritto. E adesso il carico: «E certamente tutti quei benefìci sarebbero durati se fosse durata la concordia tra i due poteri: e a ragione se ne sarebbero potuti aspettare altri maggiori, se con maggiore fede e perseveranza ci si fosse inchinati all’autorità, al magistero, ai disegni della Chiesa. Si deve infatti attribuire il valore di legge eterna a quella grandissima sentenza scritta da Ivo di Chartres al pontefice Pasquale II: “Quando regno e sacerdozio procedono concordi, procede bene il governo del mondo, fiorisce e fruttifica la Chiesa. Se invece la concordia viene meno, non soltanto non crescono le piccole cose, ma anche le grandi volgono miseramente in rovina”». Il concetto fu ribadito da un altro papa. Pio X, in Notre charge apostolique: «La civiltà non è più da inventare, né la città nuova da costruire sulle nuvole. Essa è esistita, è la civiltà cristiana». E non è possibile che il colto Prevost non lo sappia.