Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Caterina d’Alessandria a cura di Ermes Dovico
ISLAM

Delitto Theo van Gogh, 19 anni dopo. Nulla cambia per la donna islamica

Ascolta la versione audio dell'articolo

Il 2 novembre del 2004, veniva assassinato ad Amsterdam il regista Theo van Gogh. Ucciso da un radicale islamico per aver girato un corto sulla condizione delle donne musulmane. Oggi la donna nell'islam è più repressa che mai.

Libertà religiosa 02_11_2023
Amsterdam, memoriale Theo Van Gogh

Il 2 novembre 2004 moriva il regista Theo van Gogh, ucciso ad Amsterdam per strada, di mattina mentre in bicicletta andava al lavoro, da Mohammed Bouyeri, un musulmano di origini marocchine esponente del gruppo Hofstad, un’organizzazione islamista costituita principalmente da giovani olandesi di seconda generazione, nati da famiglie nord africane immigrate. Bouyeri, che indossava un abito tradizionale, la giallaba, ha sparato più volte a Theo e quando lui è caduto a terra lo ha sgozzato. Infine gli ha conficcato nell’addome due coltelli, in uno dei quali erano infilati dei fogli contenenti minacce ai governi occidentali, agli ebrei e a Ayaan Hirsi Ali, una giovane somala all’epoca rifugiata in Olanda.

Si è trattato dell’esecuzione di una sentenza di morte, una fatwa. Theo van Gogh è stato punito per aver osato denunciare la difficile condizione delle donne musulmane. Lo aveva fatto con un cortometraggio intitolato Submission in cui quattro donne musulmane vittime della legge coranica raccontano la loro storia: una condannata alla fustigazione, la pena inflitta alle adultere insieme alla lapidazione, per aver avuto rapporti sessuali senza essere sposata, una infelice per essere stata costretta dalla famiglia a un matrimonio combinato con un uomo mai amato, una segregata e picchiata continuamente dal marito, violento, brutale e geloso e una violentata da uno zio nel silenzio dei genitori consapevoli, ma preoccupati di salvare l’onore del famigliare. Sono donne velate salvo una sul cui corpo si vedono incise delle parole tratte da una sura, un versetto del Corano, un imperdonabile atto blasfemo agli occhi di un musulmano.

Ayaan Hirsi Ali aveva scritto i testi del cortometraggio. Perciò anche su di lei pendeva la minaccia di essere giustiziata. Le autorità olandesi avevano preso sul serio la minaccia e le avevano assegnato una scorta che poi però le è stata tolta in seguito a pressioni politiche. È ancora viva. Dal 2007 abita negli Stati Uniti che le hanno offerto asilo. Lavora presso l’American Enterprise Institute, ha scritto diversi libri e ha creato una organizzazione no profit, la AHA Foundation, impegnata a preservare, proteggere e promuovere le libertà e gli ideali dell’Occidente con una attenzione particolare alle violazioni dei diritti delle donne legittimate dall’islam. 

Sono trascorsi quasi 20 anni dalla morte di Theo van Gogh e nel frattempo le istituzioni islamiche che sottomettono le donne sono diventate famigliari agli europei. Quelle denunciate nel cortometraggio e altre ancora – matrimoni combinati e imposti, omicidi d’onore, segregazione e violenza domestica legittimate, obbligo del velo, mutilazioni genitali femminili – ormai sono praticate infatti anche in Europa, anche in Italia.  

Il 31 ottobre si è svolta una nuova udienza del processo contro gli assassini di Saman Abbas, la giovane pachistana residente in Italia con la famiglia, uccisa nel 2021 per lavare l’onta del suo rifiuto di sposare un cugino scelto dai genitori. Gli imputati sono il padre Shabbar, che era riuscito a fuggire in Pakistan con la moglie e che lo scorso 1° settembre è stato estradato, la madre Nazia, ancora latitante in Pakistan, lo zio Danish Hasnain, autore materiale dell’omicidio, e due cugini, Ikram e Nomanulhaq, arrestati nel 2022 uno in Francia, l’altro in Spagna dove erano fuggiti.

Durante l’udienza è stata ascoltata la testimonianza del fratello minore di Saman, Ali Heider, che ha parlato protetto da un paravento per non vedere ed essere visto dai famigliari. “Mentre facevano i loro progetti in camera da letto mi mandavano in cucina a fare il the – ha raccontato – io ascoltavo sulle scale, non capivo tutto, ma più o meno. Ho sentito una volta mio padre dire ‘scavare’. Parlavano di scavare e di ‘passare dietro alle telecamere”. E ancora: “Ho visto tutta la scena, ero davanti alla porta di casa. Mia sorella camminava, lo zio ha preso per il collo Saman e l'ha portata nella serra. C'erano anche i cugini di cui ho visto solo la faccia”. Della madre ha detto: “Mentre mio zio prendeva Saman per il collo, lei guardava. La mamma però non avrebbe mai ammazzato Saman, ma nella nostra cultura le donne non contano niente. Ogni volta che diceva qualcosa, mio padre la azzittiva”. 

È di tre giorni fa invece la notizia della morte in Iran di Armita Geravand, la ragazzina di 16 anni fermata il 1° ottobre dalla polizia religiosa mentre saliva su un treno della metropolitana senza hijab, il copricapo prescritto. Gli agenti l’hanno portata via senza che ci fosse “conflitto fisico o verbale”, dicono le autorità, ma è stata ricoverata in ospedale ed è morta dopo essere stata in coma per 28 giorni. È da oltre un anno che gli iraniani protestano contro l’obbligo del velo e contro la brutalità della polizia religiosa, alla quale gli ayatollah affidano la tutela della morale. Le manifestazioni sono incominciate dopo la morte di Mahsa Amini, deceduta mentre era detenuta dalla polizia che l’aveva arrestata perché non indossava correttamente l’hijab. L’attivista iraniana per i diritti delle donne Narges Mohammadi, Premio Nobel 2023 per la Pace, è in prigione dal 2016, condannata a 31 anni di carcere e 154 frustate.