Delia, la mamma di 28 mila anni, che parla a noi
Delia è una bellissima donna di 28 mila anni. Stiamo parlando di uno dei più importanti ritrovamenti paleontologici del mondo, avvenuto in Italia nel 1991. Fu allora che nella grotta-santuario di Santa Maria di Agnano, sulle colline fuori Ostuni, in Puglia, l’équipe del professore Donato Coppola, scoprì una sepoltura unica: lo scheletro praticamente completo e in ottimo stato di una giovane donna incinta di otto mesi.
Delia è una bellissima donna di 28 mila anni. Stiamo parlando di uno dei più importanti ritrovamenti paleontologici del mondo, avvenuto in Italia nel 1991. Fu allora che nella grotta-santuario di Santa Maria di Agnano, sulle colline fuori Ostuni, in Puglia, l’équipe del professore Donato Coppola, docente nell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, scoprì una sepoltura unica: lo scheletro praticamente completo e in ottimo stato di una giovane donna incinta di otto mesi. Anche il piccolo scheletrino che stava nel suo ventre è quasi completo e in condizioni eccellenti. Oggi riposano entrambi, la madre accanto al figlio, al 15 di via Cattedrale a Ostuni, cioè nell’ex monastero carmelitano di Santa Maria Maddalena dei Pazzi, annesso alla chiesa di San Vito Martire, che accoglie il Museo di Civiltà Preclassiche della Murgia Meridionale (il professor Coppola ne è il direttore scientifico), una struttura che gestisce pure il Parco Archeologico e Naturalistico di Santa Maria d’Agnano.
Nel Museo, Delia e il suo piccolo sono adagiati in una teca trasparente come le principesse buone delle fiabe. Quando li trovarono, la madre, reclina sul lato sinistro, le gambe rannicchiate e una mano sotto la guancia, pareva dormire. La mano destra la poggiava sul ventre, proteggendo e coccolando la creatura che era in lei. La loro famiglia li ha sepolti così, componendoli in quel gesto che Delia avrà compiuto d’istinto mille volte e che nel silenzio della tomba diventa un quadro indelebile. Per questo gli scienziati non se la sono sentita di perderlo per sempre, realizzando prima un calco che riproduce il ritrovamento esatto (le ossa dei due corpi non più rette da muscoli e fibre che si accatastano mescolandosi tra loro, con i monili e con la terra) e poi un vivido rendering tridimensionale di come potessero davvero essere quella mamma e quel suo pancione.
Affiancati nella teca mettono i brividi. Lei, probabilmente ventenne, alta, circa 1,70 mt., e il piccolo invece così minuscolo. Eppure sono uguali: il feto è solo un uomo in miniatura. Chi ne è rimasto profondamente colpito è il popolare conduttore televisivo Alberto Angela, che ne ha voluto parlare dettagliatamente nella puntata di Ulisse, il piacere della scoperta trasmessa sabato 10 ottobre su Rai3 (clicca qui). La storia della madre paleolitica lo ha affascinate tanto che in un post su Facebook ha scritto: «Non si riesce a nascondere una commozione intima davanti a questa mamma e il suo piccolo (o la sua piccola) che il destino ha unito nei millenni. Non si conoscono al mondo resti di una donna incinta così antica». E in un altro, commentando una fotografia dello scheletrino: «La ragazza è morta per cause sconosciute all’ottavo mese di gravidanza e i ricercatori hanno rinvenuto il suo piccolo ancora in grembo. La cosa che mi ha impressionato di più nel racconto della scoperta è che al momento di estrarre delicatamente le minuscole ossa del feto il professor Coppola si è accorto che delle falangi della mano (non esposte nella teca) erano ancora a contatto con le orbite, segno che il piccolo aveva i “pugnetti” davanti agli occhi. Come non sentire un istintivo senso di protezione nei suoi confronti anche a 28 mila anni di distanza?».
Quante volte l’abbiamo sentita la storia dei piccoli che nel grembo materno fanno i “pugnetti”, si sfregano il viso, sbadigliano e pure si scansano se c’è un fastidio, un pericolo? Quante volte l’abbiamo sentita la storia dei bimbi che nel ventre materno provano dolore se dolore viene loro procurato? Come si fa a pensare che quello vivo nel ventre di una madre sia solo un grumo di cellule senza diritti che si può abortire a piacimento? Delia e il suo piccolo sono Homo sapiens, cioè uomini esattamente come noi; che grande insegnamento ci proviene da quei nonni paleolitici. Ma non è finita.
Nella tomba Delia portava dei bracciali e un copricapo, una specie di cuffia, fatti di centinaia di conchiglie. Cipree, ovvero quei gasteropodi piuttosto comuni che hanno forma globosa, lucida e porcellanacea, un’apertura longitudinale tra due labbra accentuate e un manto sovente maculato. Ricordando l’organo genitale femminile, per le culture arcaiche sono simbolo di maternità e quindi archetipo della vita. Lo stesso dicasi per l’ocra, di cui è intrisa la “cuffia” di Delia: il suo colore è rosso come il sangue, altro emblema della vita. Delia si chiama così perché Coppola, il suo scopritore, l’ha voluta chiamare come la moglie (da quando hanno divorziato la “madre antica” si chiama freddamente “Ostuni 1”, ma noi tiriamo diritto).
Quel copricapo ricorda quello di una famosa statuetta, la Venere di Willendorf (oggi nel Museo di storia naturale di Vienna), che ha più o meno l’età di Delia. A statuette così si è voluto far dire di tutto: la Dea Madre, il matriarcato originario e il sacro femminino in un pot-pourri di parole in libertà che dall’archeologia seria passano con nonchalance al trash più ridicolo. Invece quelle micro-virago con seni esagerati, ventri gonfi e steatopigia spavalda sono state scolpite da ignoti Botero preistorici “solo” per celebrare il culto e il rito della femminilità generosa, della maternità esuberante e della vita prorompente (quindi delle nozze feconde e della famiglia). Il primo segno attraverso cui si mostra (cioè si comunica e si trasmette) la peculiarità dell’Homo sapiens è la relazione simbolica, un atto di carattere spirituale che l’arte manifesta e che la religione (religio come “legame” ovvero ancora “simbolo”) costituisce.
Che fa, cioè, l’uomo appena viene al mondo, all’alba dei tempi oppure oggi? Disegna, colora, scolpisce, incide e poi scrive (che è un altro modo di disegnare) per dire ai suoi contemporanei (orizzontalmente) e ai posteri (verticalmente) ciò che merita di essere detto. Testimonia, insomma, il grande mistero che lo circonda, lo affascina e lo costituisce. Uomini che pregano, madri gravide e scene sociali di carattere propiziatorio oppure apotropaico sono la prima forma di comunicazione umana, l’arte dell’Homo sapiens. Gesti sacrali, sacri, religiosi. Cosa ci fanno le conchiglie vulvari della nascita e l’ocra sanguigna della vita là nel buio della morte di Delia e del suo piccolo? Dicono, anzitutto a Delia e al suo piccolo, poi a tutti (dal suo clan di 28 mila anni fa fino a noi nell’anno del Signore 2015) che la vita continua dopo la morte, addirittura che c’è la promessa di una nuova nascita oltre il sepolcro. Anche per i bimbi morti ancora nel grembo della madre.
L’umanità della vita che sta nel ventre materno e la speranza “a tentoni” della risurrezione sono cose antiche quanto l’uomo, che l’uomo si porta dentro, appunto, le ossa perché così l’uomo è stato costituito da chi lo ha costituito. Per questo Delia non ha paura e, serena, conforta il suo piccolino. È il secondo grande insegnamento che ci viene da quella famiglia di quasi 300 secoli fa. La grotta di Santa Maria d’Agnano è stata un luogo di sepoltura e di preghiera dal paleolitico sino al Medioevo cristiano, quando divenne una chiesa rupestre. Dei molti affreschi che un tempo l’adornavano, ne è rimasto solo uno. Quello cinquecentesco della Vergine Maria che stringe in braccio Gesù bambino, contornati dagli angeli e adorati da un orante in ginocchio. Delia e il suo piccino dormivano lì.