Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santo Stefano a cura di Ermes Dovico

SIRIA

Deir Ezzor, lo Stato islamico getta la maschera

Deir Ezzor, capoluogo dell'est della Siria, principale centro petrolifero del Paese, è teatro di una sanguinosa battaglia fra l'Isis e l'esercito regolare. Il Califfato cerca la rivincita, dopo le sconfitte subite a Ramadi e Aleppo. E per questo sfodera la sua peggiore violenza. A Deir Ezzor, luogo di deportazione degli armeni.

Esteri 19_01_2016
L'ex chiesa armena di Deir Ezzor

Ci si è messa anche la tempesta di sabbia, ieri. Sabbia rossa del deserto, non certo l'ideale per chi ha la sua roccaforte in un aeroporto militare stretto d'assedio dalle bandiere dell'Isis da ogni punto cardinale. Sabbia rossa che copre la tragedia che si consuma ormai da giorni a Deir Ezzor, capoluogo dell'est della Siria, principale centro petrolifero del Paese, un tempo abitato da duecentomila persone.

È da alcuni giorni, ormai, che da Deir Ezzor arrivano notizie su un'offensiva in grande stile dello Stato islamico; un nuovo assalto contro i quartieri settentrionali, l'enclave controllata dall'esercito di Damasco che da due anni i jihadisti non riescono ad espugnare e tengono sotto assedio. Offensiva che sabato ha assunto tinte drammatiche con le notizie sui massacri che sarebbero avvenuti durante l'avanzata da nord delle milizie del califfato; ci sarebbero anche centinaia di persone prese in ostaggio di cui non si conosce la sorte. Notizie oggi impossibili da verificare nelle loro proporzioni, nel mezzo di una battaglia che avviene anche a colpi di tweet tra jihadisti che annunciano conquiste di nuove posizioni e lealisti che rispondono raccontando che a Deir Ezzor una controffensiva sarebbe già in corso. Di certo c'è l'ennesimo calvario di un'altra città tra le più ferite in questi cinque anni di guerra in Siria, con la popolazione di interi quartieri nuovamente senza né cibo né acqua. Quando non direttamente alla mercé delle bande dell'Isis.

Che siano 100, 200 o davvero 400 i cadaveri di queste ore, alla fine cambia poco: il punto è che a Deir Ezzor sta andando in scena la risposta del Califfato ai colpi subiti nelle ultime settimane, tra Ramadi a est (esercito iracheno con il supporto aereo della coalizione Usa), i sobborghi di Aleppo a ovest (esercito siriano con il supporto aereo russo) e le zone strappate dai curdi a nord. L'Isis reagisce concentrando la propria offensiva su un altro fronte, in un crocevia lungo l'asse che collega i territori sotto il suo controllo in Siria con quelli in Iraq. Un fronte nel posto dove più facilmente può far leva sul punto debole dei suoi avversari: la mancanza di truppe di terra.

L'Isis cerca una vittoria là dove oggi è più facile. E la cerca per rilanciare la sua aura di invincibilità nei territori dove il Califfato ha preso forma. Per di più in una zona ricca di pozzi petroliferi, il cui sfruttamento è una delle principali fonti di sostentamento delle milizie (conta poco qui il crollo delle quotazioni internazionali: in un'economia di guerra il prezzo della benzina lo fa il mercato nero, non l'indice Nymex).

L'offensiva dell'Isis a Deir Ezzor dice - però - anche un'altra cosa: quanto in questa fase possa diventare ancora più sanguinaria la formazione jihadista. Perché oggi che finalmente si è cominciato perlomeno dal cielo a combatterlo sul serio, il Califfato ha gettato ogni maschera. Non ci prova nemmeno più a presentarsi sotto la parvenza di un ordine islamico fatto di editti, confische e macabre burocrazie, in una sorta di sistema para-statuale. Più passano le settimane e più il suo volto diventa quello del terrore allo stato puro. Le poche notizie che filtrano da Mosul e Raqqa, in queste settimane parlano di una stretta ancora più dura rispetto a ogni canale sfruttabile per esprimere un dissenso, anche all'interno della comunità sunnita.

La battaglia di Deir Ezzor - alla fine - dice una cosa molto chiara: i minuetti della diplomazia intorno ai posti intorno al tavolo di Ginevra, dove dal 25 gennaio dovrebbero riprendere i negoziati sul futuro della Siria, sono una danza che uccide. Senza un'intesa vera tra le potenze che si combattono per procura, l'Isis arretra un po' ma non sparisce. E là dove rimane diventa ancora più crudele.

E a farne le spese rischiano di essere ancora luoghi segnati profondamente dal calvario dei cristiani d'Oriente. Sì, perché Deir Ezzor è un grande simbolo anche di questo. La città nel deserto - un secolo fa - fu infatti il punto d'arrivo delle marce forzate degli armeni condotti fin qui dalla Turchia. In migliaia trovarono la morte proprio sulle rive dell'Eufrate. Ma altri proprio qui trovarono anche la forza di rinascere: Deir Ezzor lungo il XX secolo era diventata la sede di un'importante comunità armena in Siria. Qui era stata costruita anche una chiesa dedicata ai martiri del Grande Male, l'unica in Medio Oriente. È stato uno dei primi edifici che l'Isis ha raso al suolo quando ha preso il controllo di una parte della città nel 2014. Nel frattempo gli ultimi armeni rimasti si sono rifugiati nei quartieri controllati dalle truppe lealiste. Quelli di nuovo nel mirino delle bandiere nere.