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IMMIGRAZIONE USA

Decreto Trump, in gioco il rapporto giudici-politica

Le sentenze che hanno bocciato l'ordine esecutivo che sospende i visti da sette Paesi a rischio terrorismo, incorrettamente definito "Muslim ban", si fondano su valutazioni politiche piuttosto che legali. Ora il caso finirà alla Corte Suprema ma comunque andrà sarà un disastro.

Esteri 13_02_2017
Trump

Partiamo dal principio. Dire “Muslim ban” è un abuso. Lo fanno tutti, ma resta un abuso. Lo fanno le avvocature generali degli Stati di Washington e del Minnesota nell’istanza contro l’ordine esecutivo emesso dalla Casa Bianca il 27 gennaio, istanza presentata al giudice federale territorialmente competente, James L. Robart del Distretto occidentale dello Stato di Washington, ma non smette di essere un abuso.

Se fosse stato un “Muslim ban”, il decreto presidenziale che ha temporaneamente chiuso le frontiere statunitensi all’immigrazione avrebbe colpito anche molti altri Paesi; anzi, nemmeno Paesi, ma una categoria specifica di persone, e così facendo avrebbe violato la Costituzione federale. Questo perché per la Casa Bianca il blocco dell’immigrazione non è una questione di religione, ma una questione di sicurezza. Discutibile? Discutibile l’idea che quel provvedimento serva a fermare il terrorismo, ma questo è tutto un altro discorso. Resta il fatto che la sospensione degli ingressi decretata dalla Casa Bianca si fonda su leggi vigenti che nessuno ha mai dichiarato incostituzionali. Sono leggi perfette? No, come non lo sono tutte le leggi umane. Sono leggi migliorabili? Ovviamente sì. E allora perché le forze politico-culturali che oggi contestano l’agito di Trump come fosse eversione pura non hanno operato in sede legislativa per la loro riforma o per la loro abrogazione?

È questa la domanda che sorge spontanea davanti alla decisione della Corte d’appello del Nono circuito di bocciare, giovedì 9 febbraio, la decisione presidenziale all’unanimità (tre giudici su tre, due di nomina Democratica, William C. Canby Jr. e Michelle T. Friedland, uno Repubblicana, Richard R. Clifton). Se infatti qualcuno pensa che le leggi statunitensi su immigrazione e visti siano lacunose o sbagliate, ha il diritto di cercare di abrogarle o di riformarle. Ma finché vigono, i tribunali sono tenuti a giudicare se le azioni del governo le violano oppure no.

Ebbene, l’ordine esecutivo del 27 gennaio non le viola affatto, come non viola la Costituzione su libertà religiosa e libertà di espressione. Lo ha riconosciuto il giudice Robart, che il 3 febbraio ha congelato il provvedimento della Casa Bianca accogliendo le succitate istanze, e lo ha riconosciuto la Corte d’appello che, dopo avere respinto domenica 5 febbraio la contestazione mossa dalla Casa Bianca alla sentenza di sblocco delle frontiere decretata da Robart, ha bocciando il provvedimento. Provvedimento che - ricordiamolo - sospende per 90 giorni gli ingressi da Sudan, Yemen, Iraq, Iran, Libia, Siria e Somalia, per 120 giorni quelli di profughi da qualsiasi Paese e a tempo indeterminato quelli di rifugiati dalla Siria allo scopo di adeguare le procedure di sicurezza.

La Corte di appello interviene però su questioni di opportunità e di efficacia del provvedimento presidenziale. Lo scrive esplicitamente quando afferma di avere bocciato l’ordine esecutivo perché il governo non è stato in grado di dimostrare che la sospensione dello stesso decretata dal giudice Robart avrebbe causato vulnera irreparabili, oltre al fatto di «[…] non avere fornito la minima prova che cittadini provenienti da uno qualunque dei Paesi nominati nel provvedimento abbia perpetrato un attacco terroristico negli Stati Uniti».

A parte il fatto che - come già detto - i famosi sette Paesi che sono diventati il casus belli non vengono affatto nominati nell’ordine esecutivo di Trump (qui la Corte scrive una cosa non vera), ma sono elencati in una direttiva sui visti d’ingresso cui fa riferimento una legge dell’era Obama, e a parte pure il fatto che è piuttosto curioso dire che per decidere se una persona possa essere considerata pericolosa occorre aspettare che abbia compiuto un crimine, non è certo un giornalista italiano a dover insegnare il diritto americano a ben tre giudici federali degli Stati Uniti. Eppure chiunque si accorgerebbe che le motivazioni addotte nella sentenza d’appello non c’entrano affatto con il bandolo della matassa: vale a dire il potere del presidente degli Stati Uniti di chiudere temporaneamente le frontiere qualora lo ritenga opportuno per la sicurezza nazionale e, nel farlo, la sua facoltà di decidere quali Paesi interessare con tale provvedimento.

La sentenza della Corte d’appello afferma peraltro una verità sacrosanta, che andrebbe scritta sui muri: «[…]  non è compito nostro cercare, in effetti, di riscrivere l’Ordine Esecutivo» giacché «le parti politiche sono molto meglio equipaggiate per stilare le distinzioni appropriate». I tribunali non fanno cioè le leggi. Un principio di civiltà sostanziale, che si chiama divisione dei poteri, sale e garanzia della democrazia (quella vera). Ma, dopo averlo affermato, nei fatti cosa sta invece consentendo la decisione della Corte d’appello nella misura in cui giudica l’opportunità (politica) e l’efficacia (tecnica) del decreto presidenziale?

Certo, il decreto del presidente contiene un punto più che debole: il non avere scritto con chiarezza che dalla chiusura momentanea delle frontiere sono escluse le Permanent Resident Card, normalmente conosciute come “green card”, ovvero il permesso concesso a cittadini stranieri di risiedere e di lavorare in modo permanente negli Stati Uniti. La Casa Bianca ha sempre sostenuto che tale esclusione è evidente, emettendo a maggior ragione, il 1° febbraio, un apposito memorandum esplicativo autorevolmente firmato Donald F. McGahn II, il consigliere legale del presidente. Ma la Corte di appello ora replica che l’indicazione di quel memorandum non è vincolante per tutti coloro cui compete l’implementazione di quanto stabilito dall’ordine esecutivo giacché quello del consigliere legale del presidente è solo, per quanto molto autorevole, un parere. Vero. Ma resta la sostanza: la Casa Bianca ha inteso escludere le “green card” dal bando agli ingressi. Magari non ha pensato subito di farlo, magari non ci aveva pensato affatto, e in ciò si vede tutta l’ingenuità dell’Amministrazione Trump. Ma a domanda la Casa Bianca ha risposto bene. Le “green card” sono escluse, dunque? Dunque procede nel processo politico alle intenzioni soltanto chi sta cercando in tutti i modi di fare accettare all’opinione pubblica mondiale l’idea che l’Amministrazione Trump sia tecnicamente fuori-legge.

Proprio per neutralizzare qualsiasi malizia la Casa Bianca ha deciso di riscrivere, molto opportunamente, l’ordine esecutivo, mettendo nero su bianco che da esso sono escluse le “green card”. Ma il caso non potrà che finire davanti alla Corte Suprema federale, dove la situazione è anomala per incompletezza di quel tribunale fino a quando il Senato non validerà la nomina del giudice Neil M. Gorsuch (e l’opposizione la ritarderà apposta?). A quel punto però l’esito potrà solo scegliere di essere o un mezzo disastro o un disastro totale. Se infatti la Corte Suprema dovesse dare ragione alla Casa Bianca, l’universo mondo griderà allo scandalo, incapace di operare la distinzione fondamentale e salubre che corre fra merito giuridico (che è competenza delle corti di giustizia) e valutazioni politiche (che non spettano ai tribunali). Qualora invece il massimo tribunale americano desse torto alla Casa Bianca, si avrà - a meno di palesi incostituzionalità del provvedimento che in questo momento nessuno però rileva - un ennesimo, pesante abuso. Che non sarà solo l’avere defraudato il potere esecutivo di prerogative che a esso competono (cosa di suo molto grave), ma anzitutto e soprattutto l’avere colpevolmente alimentato quella confusione culturale e quel disprezzo della giustizia (e magari pure della logica) che sono tra i tratti più tipici e inquietanti del relativismo in cui sta annegando la civiltà occidentale.