Decreto flussi e ricongiungimenti, l’abbaglio di Avvenire & Co.
Ascolta la versione audio dell'articolo
Tra le reazioni negative al Decreto flussi spicca quella in tema di ricongiungimenti: vedi Avvenire, che parla di «infelicità imposta». Una falsità, perché le nuove norme mirano a tutelare l’immigrazione regolare e garantire condizioni di vita decorose.
Con il Decreto flussi approvato in via definitiva il 4 dicembre scorso grazie al voto favorevole espresso dal Senato, il governo italiano ha ridefinito le regole riguardanti l’ingresso e il soggiorno degli stranieri extracomunitari che a vario titolo chiedono di essere autorizzati a risiedere nel nostro Paese: in particolare per lavoro, gli emigranti cosiddetti economici, e per asilo, i profughi in fuga da situazioni che ne hanno messo in pericolo vita e libertà. Le linee guida generali rispondono, nell’interesse di tutti e prima di tutto di chi – autoctono o straniero – vive in Italia, all’esigenza pressante di governare e tutelare l’immigrazione regolare, garantire il debito status giuridico di rifugiato a chi ne ha diritto e contrastare con efficaci metodi dissuasivi l’emigrazione illegale. Non tutti hanno apprezzato l’impegno profuso e i risultati conseguiti.
Il Consiglio superiore della magistratura, ad esempio, disapprova il trasferimento, dalle sezioni specializzate dei tribunali alle corti d’appello, della competenza sui respingimenti. Il Csm sostiene che si rischia di affidare il compito a magistrati privi delle competenze necessarie. E la Uil commenta che il provvedimento «non risponde all’esigenza di un esame equo e competente, ma solo a tentativi di superare gli ostacoli posti da alcune sentenze giudiziarie». Il riferimento è ovviamente al tribunale di Roma che di recente ha annullato il trattenimento, nei centri italiani allestiti in Albania, degli emigranti intercettati dalle navi italiane nel Mediterraneo.
Da parte loro, le organizzazioni non governative le cui imbarcazioni sono impegnate nel Mediterraneo in attività di soccorso contestano le nuove, più severe sanzioni introdotte in caso di violazioni. «Il vero obiettivo del provvedimento – si legge in un documento firmato da otto Ong – non è la gestione dei soccorsi in mare, ma limitare e ostacolare la presenza delle navi umanitarie e arrivare a un piano di definitivo abbandono del Mediterraneo e di criminalizzazione del soccorso in mare. Ancora una volta sembra che lo scopo sia quello di rendere la vita impossibile a chi salva vite umane e testimonia le violazioni del diritto internazionale che avvengono quotidianamente nel Mediterraneo Centrale. Un’altra legge dannosa, propagandistica e disumana, oltreché palesemente illegittima».
Si capisce, anche senza condividerlo, il disappunto di chi ritiene un diritto entrare illegalmente in un Paese e che quindi avversa le norme contenute nella nuova legge. Invece risulta più difficile capire le molte reazioni negative alle regole in materia di ricongiungimento familiare al quale hanno diritto, a determinate condizioni, gli stranieri regolari: gli extracomunitari che sono in Italia perché ci lavorano e quelli che vi risiedono perché hanno ottenuto asilo. Queste regole prevedono, a tutela loro e delle loro famiglie, più rigore nella verifica, affidata alla polizia locale, dell’idoneità delle abitazioni in cui i familiari saranno ospitati, in termini di condizioni igienico-sanitarie e di spazi adeguati; confermano il requisito di un reddito minimo accertato, il cui importo cresce in funzione del numero dei parenti ricongiunti; e portano da uno ad almeno due gli anni di permanenza legale ininterrotta nel territorio nazionale, cioè del periodo necessario perché sia possibile avviare le pratiche di ricongiungimento, ad eccezione dei figli minorenni e dei titolari di protezione internazionale.
Sarà anche una “complicazione”, come scrive Maurizio Ambrosini sul quotidiano Avvenire (6 dicembre 2024), che si adottino provvedimenti più rigorosi per accertare che davvero uno straniero disponga di un reddito adeguato a provvedere ai parenti con i quali desidera ricongiungersi e che sia in grado di accoglierli in una buona abitazione, grande abbastanza. Dispiace che la separazione dei membri di una famiglia si protragga, ma bisogna essere certi della stabilità della situazione lavorativa del congiunto emigrato; e un solido stato di integrazione economica e sociale richiede tempo. Queste norme hanno come unico obiettivo quello di garantire condizioni di vita decorose, un’esistenza dignitosa a chi arriva, condizioni di base, primarie per una serena vita familiare e per l’ambientamento quanto meno traumatico possibile in un nuovo ambiente sociale, spesso molto diverso da quello consueto.
Invece si parla di «infelicità imposta per decreto» accusandone il governo. «Vivere in famiglia – sostiene a ragione il quotidiano della Cei – non solo è un’esigenza umana incoercibile, ma rafforza la coesione sociale, favorendo una vita normale, ordinata e integrata». Ma quando aggiunge che «la stretta del governo cancella tutto questo», che le famiglie transnazionali sono «figlie di un dio minore», dal momento che sono affermazioni false perché nulla si cancella e si nega, al contrario, allora, Dio non voglia, forse l’oggettività dell’analisi proposta è compromessa dall’intenzione prioritaria di attaccare il governo, o almeno quello che secondo l’autore dell’articolo ne costituisce il «fronte sovranista».