Debito americano, l'accordo non risolve il problema
Ascolta la versione audio dell'articolo
Nelle ultime settimane, la scena politica americana è stata dominata dal dibattito sul tetto del debito, con il rischio, concreto, di fare default (quindi di non poter più pagare le spese federali) nella prima settimana di giugno. L'accordo è stato raggiunto per scongiurarlo, ma il problema del debito resta.
Nelle ultime settimane, la scena politica americana è stata dominata dal dibattito sul tetto del debito, con il rischio, concreto, di fare default (quindi di non poter più pagare tutto ciò che dipende dal governo federale) nella prima settimana di giugno. Il tetto è il limite massimo di indebitamento, oltre il quale il governo federale non può più chiedere denaro in prestito. Il rischio è dunque quello che il governo si trovi privo delle risorse necessarie a pagare le sue spese, a meno di non voler alzare le tasse o tagliare la spesa pubblica, entrambe politiche elettoralmente suicide. All’ultimo minuto, martedì, è stato raggiunto un accordo fra il presidente Joe Biden e il presidente della Camera, Kevin McCarthy, alla testa della nuova maggioranza repubblicana.
L’accordo prevede che l’amministrazione possa alzare ancora il tetto oltre i 31mila e 400 miliardi di dollari attuali. In cambio, i Repubblicani hanno ottenuto una riduzione della spesa pubblica pari a 1500 miliardi di dollari (spalmata in dieci anni) e hanno stabilito la regola che, nei prossimi due anni, la spesa non debba crescere complessivamente di più dell’1%. Nel 2025 il tetto del debito andrà nuovamente rinegoziato dal prossimo presidente, chiunque vinca le elezioni.
Molte le critiche, sia da destra che da sinistra. Da destra, i Repubblicani più conservatori e i libertari contestano che l’accordo non preveda la riduzione del debito pubblico, non tocchi le spese maggiori, come Medicare (il programma assicurativo sanitario pubblico) e la previdenza sociale. Inoltre non viene toccato neppure il programma di transizione verde, che, al contrario, prevede un’accelerazione. I tagli riguardano soprattutto spese “discrezionali”. Vengono tagliati, ad esempio, 21 miliardi e mezzo che erano destinati all’agenzia delle entrate per potenziare e modernizzare la sua burocrazia; vengono rese leggermente più difficili le condizioni per ottenere sussidi pubblici. Ed è soprattutto su quest’ultimo punto che protesta la sinistra più radicale dei Democratici.
Resta però “l’elefante nella stanza”. Si può tirare un respiro di sollievo per l’accordo strappato all’ultimo, che evita il default, ma il debito rimane un problema non affrontato. Alzare, di volta in volta, il tetto del debito, come si è già fatto per 102 volte dal 1945, non cancella la natura del problema.
In termini assoluti il debito pubblico americano ha superato i 31mila miliardi di dollari nell’ottobre 2022. Nel momento in cui questo articolo va online, ha raggiunto quota 31mila e 467 miliardi di dollari, pari a 94.200 dollari per ogni cittadino americano. Non c’è alcun presidente che abbia cercato di abbassare il debito, almeno negli ultimi quarant’anni. Dal 1981 (amministrazione Reagan) ad oggi è passato da 1000 miliardi di dollari a 31mila attuali. L’aumento del debito è stato perfettamente bipartisan.
Ragionare sul debito pubblico solo in termini assoluti (quante migliaia di miliardi) sarebbe però riduttivo. Dire “31mila e 467 miliardi” è impressionante, ma bisogna tener conto del fatto che gli Usa hanno anche il Pil più grande del mondo che rende il debito sostenibile. Occorre dunque ragionare sul debito in rapporto al Pil. Ebbene, attualmente è pari al 98% del Pil americano. Solo nel 1945 ha superato la soglia del 100% a causa delle spese di guerra, per poi sgonfiarsi negli anni del dopoguerra: nel 1955, dieci anni dopo e nonostante la guerra di Corea, era già tornato ad essere il 56% del Pil e avrebbe continuato a ridursi fino al 1974 (23% del Pil). Il debito ha raggiunto ancora quota 100% nel 2020, primo anno della pandemia di Covid. Ma, contrariamente al dopoguerra, non si è sgonfiato. In termini proporzionali, il presidente che è maggiormente responsabile dell’aumento del debito pubblico, in tempi recenti, è Barack Obama: nei suoi due mandati, è cresciuto da 39% a 76% del Pil.
Le cause economiche sono strutturali e di lungo periodo: il calo delle nascite, di conseguenza l’invecchiamento della generazione del baby-boom, l’aumento dei costi sanitari e un gettito fiscale che non porta abbastanza denaro per pagare l’assistenza sociale che il governo promette ai cittadini. Aumentare le tasse, come aveva fatto George W. H. Bush nel 1992, comporta quasi automaticamente la sconfitta elettorale. Ma nessun presidente e nessun Congresso ha mai avuto il coraggio di tagliare seriamente la spesa pubblica, nemmeno se dominato da una maggioranza di conservatori fiscali. La crisi del coronavirus ha accelerato una traiettoria fiscale già insostenibile, sia per il suo impatto devastante sull'economia sia per la risposta legislativa.
Al di là del successo vantato sia da Biden che dai Repubblicani, per aver evitato il default, quanto può reggersi un’economia con un debito così grande? Se manca la crescita, demografica così come economica, prima o poi la tenuta dei conti salta. Non è possibile garantire un benessere crescente contraendo sempre più debiti, prendendo a prestito denaro, su cui si devono pagare interessi e che prima o poi, naturalmente, dovrà essere restituito.