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Ddl sul fine vita, l'ipocrisia della morte con delega statale

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L'iter parlamentare sul suicidio assistito ne mette in evidenza le contraddizioni, tra cui la proposta di escludere il Servizio sanitario nazionale. In pratica, si potrà chiedere aiuto per farla finita ma non allo Stato che autorizza senza volersi sporcare le mani. 

Vita e bioetica 13_09_2025
BENVEGNU' GUAITOLI - IMAGOECONOMICA

Prosegue l’iter di approvazione in Senato del Disegno di legge sul suicidio assistito dal titolo Modifica all'articolo 580 del codice penale e ulteriori disposizioni esecutive della sentenza n. 242 della Corte costituzionale del 22 novembre 2019 (clicca qui e qui per un approfondimento). All’art. 4 si può leggere quanto segue: «il personale in servizio, le strumentazioni e i farmaci di cui dispone a qualsiasi titolo il Servizio sanitario nazionale non possono essere impiegati al fine dell'agevolazione dell'esecuzione del proposito» suicidiario. In breve, questa legge permette di farti aiutare a toglierti la vita, ma non puoi chiedere allo Stato, cioè alla Sanità pubblica, questo aiuto.

I primi firmatari di questo Ddl, Pierantonio Zanettin (FI) e Ignazio Zullo (FdI), hanno proposto diversi emendamenti al loro testo base. In uno di questi si ribadisce che il Servizio Sanitario Nazionale debba rimanere fuori dalla procedura relativa al suicidio assistito aggiungendo che «in nessun caso la legge riconosce alla persona il diritto ad ottenere aiuto a morire».

Qualche considerazione su questo snodo concettuale. In primo luogo appare evidente che la legge, in modo contraddittorio, mira a distinguere tra la tutela di una supposta dignità nel fine vita e la promozione attiva del suicidio assistito, escludendo il coinvolgimento diretto del sistema pubblico in quest'ultima. In parole povere le legge è come se ti dicesse: ti permettiamo di morire, ma non chiedere allo Stato una mano. L’ipocrisia è palpabile perché la mano più rilevante all’aiuto al suicidio è già stata data dallo Stato approvando questa legge. È infatti grazie a tale norma che chi aiuterà qualcuno a togliersi la vita non finirà in galera. Lo Stato è già implicato nell’aiutare a togliersi la vita grazie soprattutto a questa legge. Pubblicamente lo Stato è complice della morte dei cittadini perché la permette, ma l’esecuzione avvenga solo in spazi privati. Ipocrisia, dunque, perché il governo delega al privato non in nome del principio di sussidiarietà, ma in nome di un vero e proprio puritanesimo di Stato: non vuole sporcarsi le mani con il sangue innocente. È come se Tizio chiedesse a Caio di uccidere Sempronio e Caio rispondesse: «Io non lo farei mai, ma ti posso indicare il nome di un conoscente disposto a farlo».

C’è poi il tema del diritto ad ottenere l’aiuto a morire. Per i relatori pare che se l’aiuto viene da un privato non si possa parlare di diritto. Più in generale si sostiene che il Ddl non qualifichi il suicidio assistito come diritto. Le cose non stanno così. La legge in esame al Senato così come la sentenza 242/19 della Corte Costituzionale che ha aperto le porte al suicidio assistito legittima questa pratica, non solo la depenalizza.

I motivi sono plurimi. In primis la legge già nel titolo fa riferimento alla già citata pronuncia della Consulta, perché la stessa si presenta come strumento esecutivo del contenuto della sentenza, sentenza che fonda l’aiuto al suicidio sulla legge 219/17 che ha legittimato l’eutanasia. In quella legge chiedere la morte è un diritto e quindi la volontà di radicare l’aiuto al suicidio in quella legge non può che portarci a concludere che anche la richiesta di essere aiutato a morire è un diritto. In secondo luogo le condizioni e le procedure descritte nel Ddl si confanno più all’esercizio di un diritto che ad una configurazione di una condizione depenalizzante.
In terzo luogo è quasi certo che le richieste di essere aiutati a morire non accettate daranno il via in sede civile ad altrettante richieste di risarcimento per danni biologici o esistenziali. Ma se c’è un danno risarcibile vuol dire che soggiacente ad esso c’è un bene da tutelare, ossia un diritto. Se il giudice acconsente a risarcire Tizio perché non è riuscito ad accedere al suicidio assistito vuol dire che il suicidio assistito non è solo una condotta meramente depenalizzata, una mera facoltà di fatto, ma un vero e proprio diritto soggettivo.

Infine c’è un motivo pressoché insuperabile per sostenere che l’aiuto al suicidio è un diritto. È stata la stessa Corte costituzionale ad affermarlo apertis verbis nella recente sentenza 132/25 (clicca qui per un approfondimento). Ad un certo punto i giudici trattano del caso in cui una persona, che vuole accedere al suicidio assistito, non riesca a trovare i supporti idonei per realizzare questo suo proponimento. A tal proposito i giudici parlano di un «fatto che paralizza l’esercizio di un diritto». Il suicidio assistito è quindi definito come diritto dagli stessi giudici della Consulta. 



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