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DAL ROMANZO AL FILM

D'Avenia, dove sono finiti gli educatori?

Bianca come il latte, rossa come il sangue – colonna sonora dei Modà a parte – è un bel film. Ma insegnanti e genitori ci fanno proprio una brutta figura. E, rispetto al romanzo, questo segna una grave pecca.

Cinema e tv 15_04_2013
Bianca come il latte, rossa come il sangue

Il panorama cinematografico italiano, in special modo negli ultimi tempi, distrincandosi tra cinepanettoni, commedie sboccate e qualche film apologetico-partigiano – e però lasciando da parte opere di indubbia qualità stilistica e di forza contenutistica che troppe volte prendono vita fuori dai confini della penisola, vedasi il recente La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, o ancora This must be the place di Paolo Sorrentino –, il panorama italiano non ha saputo donare i capolavori dei tempi andati e questo, si sa, è un problema. Eppure, la Lux Vitaeha provato a gettarsi in una categoria cinematografica evergreen, quella per adolescenti, cercando di rivoluzionarla dall’interno senza appesantirla di morali soffocanti e inconsistenti. E ha prodotto Bianca come il latte, rossa come il sangue, dall’omonimo bestseller di Alessandro D’Avenia, insegnante in quel di Milano.

Leonardo (Filippo Schiccitano), detto Leo, un sedicenne scapestrato di origini romane, è follemente innamorato di Beatrice (Gaia Weiss), una ragazza francese dalla folta chioma rossa. Il rosso: Leo impazzisce quel colore, tanto che ci dipinge l’intera stanza. Tuttavia, il ragazzo è timido, e non basta l’appoggio del suo amico Niko e di Silvia (Aurora Ruffino), invaghita di Leo dalla terza media, perché Beatrice è troppo bella, e Leo troppo incapace. Solo la malattia di Beatrice riesce a mettere alle strette Leo, che pur di non perdere per sempre la possibilità di conoscerla la incontra, le rivela il suo amore, e la accompagna verso l’ultimo passo. Beatrice è, al modo dantesco, iter verso “fin”, un Dio che cambia nome seguendo il T9, il correttore automatico del cellulare. Ad aiutare il giovane Leo nella prova è il Sognatore (Luca Argentero), supplente di italiano con il quale instaura un rapporto che scavalca le mura dell’aula di liceo.

Ecco il film in estrema sintesi, una storia d’amore e morte che cambia il protagonista e i personaggi satellite: Leo impara ad assumersi le proprie responsabilità e a seguire con fiducia, nonostante la fatica, le avverse circostanze che gli si parano davanti. Eppure, la scoperta, al fondo, di una mano buona che ordina gli avvenimenti secondo un disegno è idea che si perde nella traslazione dal libro al film. È chiaro: narrativa e cinematografia richiedono linguaggi diversi per essere entrambi efficaci, ed è comune a molte trasposizioni su grande schermo la perdita di valori, di sfumature, di note che erano proprie del testo scritto. Su altri livelli, ma efficace nel parallelismo, è Non è un paese per vecchi del meraviglioso Cormac McCarthy, reso fedelmente dai fratelli Coen nell’omonimo film. Pur rimanendo il più possibile ancorati al testo, il film è altro, e tale rimane.

Eppure, anche consci di ciò, non si può rimanere un poco interdetti nel vedere il lavoro del regista Giacomo Campiotti. Sicuramente il film è ben fatto, e anche i dialoghi sceneggiati dallo stesso autore Alessandro D’Avenia rendono Bianca come il latte, rossa come il sangue un film degno di nota nel breve giro della cinematografia nostrana – escludendo, forse, la colonna sonora dei Modà, che al posto di amplificare i picchi emotivi pare strozzarli sotto una coperta di miele e belle parole. Ciò che manca, però, nel film, e che invece era una delle invenzioni narrative più riuscite nel romanza, sono però le figure degli educatori. Se nel libro i genitori di Leo lo sosteneva e lo riprendevano, nel film non sanno che pesci pigliare davanti a un adolescente in crisi. Il maestro, poi, che è vero trampolino nel cambiamento di Leo nel libro, è nella pellicola maldestramente ridotto a insegnante-amico-compagno, un trinomio inconcludente ma, si capisce, estremamente accattivante per un pubblico giovane. Luca Argentero diventa così la spalla su cui piangere, un punching-ball da abbattere per sfogarsi un po’, perdendo lo spessore della guida, del Virgilio che silenziosamente guida Dante fino a Beatrice.