Dante come un padre, compagnia verso la salvezza
Nel saggio di Marco Martinelli, “Nel nome di Dante”, la memoria del papà si mescola con quella dell’incontro con la Divina Commedia, nella consapevolezza che tutti abbiamo bisogno di un maestro che ci introduca nella realtà. Anche nello scritto di Enrico Castelli Gattinara “Come Dante può salvarti la vita” ci si sofferma sul valore salvifico del capolavoro dantesco e in generale dell’arte
Nel nome di Dante (Ponte alle Grazie), saggio di Marco Martinelli, uno dei maggiori registi e drammaturghi italiani odierni, potrebbe essere ribattezzato anche Nel nome del padre.
La memoria del papà Vincenzo si mescola con quella dell’incontro con il capolavoro dantesco nell’evidenza che abbiamo tutti bisogno di un maestro che ci introduca nella realtà. Martinelli, infatti, ricorda:
Mio padre aveva un modo tutto suo di svegliarmi. Entrava silenzioso nella stanza, si sedeva accanto a me, sui bordi del letto, e cominciava a raccontare. Era la sua voce, sottile e amorevole, a svegliarmi. E le storie erano sempre diverse, storie che avrei poi ritrovato a scuola. […] Oppure erano le scenette dei suoi film preferiti, Totò e l’onorevole, Peppone e Don Camillo, che lui ricostruiva a braccio. […] Mio padre è stato il mio primo maestro, per tutta l’infanzia e l’adolescenza, e senza mai atteggiarsi a maestro. […] Sulla vita di Dante tornava spesso: i suoi chiodi fissi erano la solitudine e la fuga (Martinelli).
Il sottotitolo Diventare grandi con la Divina Commedia sottolinea la dimensione autobiografica del saggio in cui il capolavoro dantesco, raccontato in una prospettiva lontana da quella scolastica tradizionale, viene piuttosto riattivato in una funzione attualizzante ed esistenziale, ereditata dal padre Vincenzo che gli ha trasmesso la passione per Dante.
Martinelli, pluripremiato in ambito teatrale (ha conseguito per ben sette volte il Premio Ubu per la drammaturgia), da buon figlio che ha accettato di avere un padre, è divenuto padre a sua volta di tanti che hanno apprezzato grazie a lui la bellezza del capolavoro dantesco. Nel 2019 nello slum di Kibera (baraccopoli di Nairobi) è stato regista dello spettacolo teatrale Dante a Kibera, da cui è nato più tardi un film, prodotto da Ravenna Teatro in collaborazione con AVSI e la rivista «Vita», presentato in prima italiana nel novembre 2019 al Filmmaker Festival di Milano.
Martinelli concepisce la Commedia come un grande teatro sul cui palcoscenico appaiono in scena più di cinquecento personaggi:
Nessun’altra opera medioevale s’avvicina a una tale profusione, perché l’autore mescola i vivi e i morti, la storia antica e la cronaca del suo tempo. Un artigiano sconosciuto come Belacqua ha il suo posto su quel palco insieme a papi e imperatori, e ladri e santi e truffatori: su quel palcoscenico c’è l’umanità intera, i morti e i vivi, ci sono tutte le razze. È piena di dialoghi, di monologhi, addirittura di «a parte», come nessun’altra opera della letteratura italiana (Martinelli).
I ragazzi dello slum di Nairobi diventano protagonisti di quella rappresentazione, riconoscono la loro selva oscura: in maniera molto emblematica anche Kibera significa «selva oscura». Ciascuno di noi, se vuole intraprendere il viaggio in compagnia di Dante, deve riconoscere la sua selva oscura, deve guardare in faccia l’Inferno che può albergare nel suo cuore, l’Inferno che l’uomo sa realizzare in Terra e riconoscere, al contempo, l’altezza del suo desiderio e l’urgenza di qualcuno che ci salvi:
abbiamo fame di luce. E Virgilio, il «dolce padre» come lo chiama Dante, glielo spiega per bene: se vogliamo arrivare alla luce, dobbiamo prima attraversare le tenebre (Martinelli).
L’uomo deve riconoscere l’angoscia mortale che spesso s’impossessa del suo animo, la selva «selvaggia e aspra e forte» in cui Dante trova il bene. Anche la circostanza più negativa, anche il peccato più bieco dell’uomo sono l’occasione per incontrare la risposta, per scoprire il senso, per essere salvati. Se una persona va in profondità delle circostanze incontra quell’«amor che move il sole e l’altre stelle».
La condizione di perdita di senso, di crisi in cui vive Dante è così amara che è molto simile alla morte. Tutti noi nella vita, come Dante all’inizio della cantica dell’Inferno, abbiamo pensato di poter fare a meno di un maestro, vorremmo contare solo sulle nostre forze e sulle nostre energie e salire da soli quel «colle luminoso» che vediamo davanti a noi, che rappresenta la via buona, la verità. Ciascuno di noi ha una ragione che gli permette di distinguere il bene dal male («lume a bene e a male» dirà Dante nel canto XVI del Purgatorio) e, nel contempo, ha quel peccato originale che lo porta a voler essere autonomo. Dante inizia, così, a salire da solo. Incontra, però, delle fiere, ostacoli che lo risospingono nella selva. Un imprevisto è la sola speranza, l’incontro gratuito e insperato che ci salva la vita. Non sono i meriti personali o le capacità di Dante a salvarlo.
Ciò che lo salva è la sua capacità di domandare aiuto, la sua mendicanza che subentra all’iniziale desiderio di totale autonomia tanto che grida: «Miserere di me».
Anche l’insegnante e scrittore Enrico Castelli Gattinara esprime in maniera esplicita il valore salvifico della Commedia e più in generale dell’arte nel suo Come Dante può salvarti la vita. Conoscere fa sempre la differenza (Giunti).
Eppure, nella civiltà occidentale odierna la cultura non è più considerata tra le cose importanti.
In molte parti del mondo la scuola è un’occasione unica per garantirsi un futuro migliore. È qualcosa che si raggiunge a fatica, per la quale occorrono molti sacrifici, dalla quale si viene esclusi con indifferenza e facilità. Molte famiglie vedono nella scuola una possibilità di riscatto per sé e soprattutto per i loro figli. Non transigono sulla sua frequenza e sull’impegno con cui ragazzi e ragazze devono studiare (Gattinara).
Commovente è l’episodio Una pagella in fondo al mare: un ragazzo proveniente dal Mali, ove più di tre quarti della popolazione non sa né leggere né scrivere, tenta la traversata del Mediterraneo con la pagella cucita nel giubbotto, indice dei suoi sforzi, dell’impegno e della qualità degli esiti raggiunti in cui ripone le sue speranze. L’uomo ha bisogno di conoscer il possibile, non soltanto il vero, «perché questo ci fa sperare, cambiare e crescere» (Gattinara). Leggere permette di fare esperienze altrimenti impossibili. Tantissimi scrittori e intellettuali hanno confessato che la scrittura e la lettura hanno salvato loro la vita.
Sbarre di ferro, muri di cemento, gabbie mentali, catene o bavagli non sono mai riusciti a spezzare definitivamente ogni speranza, malgrado i milioni e milioni di vittime che hanno mutato. La poesia che nasce dalla solitudine e dal silenzio di ognuno di noi […] ha la forza invincibile di consolarci e superare ogni barriera fisica, quella del nostro stesso corpo o quelle, innumerevoli, inflitte dall’esterno (Gattinara).
La poesia è espressione di libertà, «libertà e disobbedienza rispetto ad ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona, di fronte ad ogni forma di irreggimentazione o, peggio, di massificazione» (Giorgio Caproni).
Non solo la poesia (non solo la Divina Commedia!), ma tutta l’arte (dalla musica al teatro, dalla fotografia alla pittura fino al cinema) ha la facoltà di liberare l’uomo dalle catene, di farlo respirare nella situazione asfittica in cui talvolta si può trovare nella quotidianità. Il bel saggio di Gattinara lo documenta con una variegata moltitudine di testimonianze appartenenti ad ambiti artistici differenti.