Dall’inferno alla rinascita: «Noi, salvati dalla Comunità Shalom»
Eva, Ester, Alessandro, Giovanni: quattro volti, quattro storie che raccontano cosa è veramente la comunità fondata da suor Rosalina Ravasio. «Siamo arrivati distrutti, vuoti, ora abbiamo ritrovato la dignità e siamo pieni di cose belle». La preghiera, la scuola, il lavoro. Suor Lisa Bianco: «La cosa più difficile è entrare nel cuore di queste ragazze, sporcarsi le mani con il loro dolore».
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«Sono entrata nella Comunità Shalom nel 2016, ero in condizioni pietose dal punto di vista fisico, psicologico e morale, fuori ero considerata pericolosa». La storia di Eva, 35 anni, un figlio di 13, è comune a tante altre che troviamo alla Comunità Shalom di Palazzolo sull’Oglio (Bs), il centro fondato 38 anni fa da suor Rosalina Ravasio.
Storie drammatiche, storie di giovani annullati, senza più uno scopo nella vita se non inseguire la propria dipendenza, spesso con tentativi di suicidio alle spalle e anche passaggi di diverse comunità prima dell’approdo alla Shalom. È anche il caso di Eva: «Questa è la mia decima comunità, prima ho girato tutte le comunità dell’Emilia-Romagna», un peregrinare iniziato nel 2007 e che aveva visto soltanto peggiorare la sua situazione. Ma alla Shalom è rinata e nei prossimi mesi tornerà a casa, percorso di recupero completato.
Come per Irena, che di anni ne ha invece 21 ed è arrivata a Shalom cinque anni fa, portata qui dai Carabinieri per evitarle il carcere minorile visto che era rea di resistenza a pubblico ufficiale. Irena, chiamata Ester, è di origine ucraina, una vita familiare tribolata, arrivata in Italia a dodici anni con sua madre che aveva deciso di venire nel nostro paese dopo l’arresto del padre, tossicodipendente e violento. Malgrado l’affetto della madre incappa subito in brutte compagnie, e a 13 anni è già dipendente dalla cocaina, poi il crac: «La droga era un modo per sentirmi accettata, ma in realtà ha solo aumentato il mio disagio sociale. Eppure rimanevo dentro questo personaggio costruito perché non volevo tornare nessuno».
È difficilmente comprensibile il dolore e la sofferenza, le ferite che queste ragazze si portano dentro, per chi vive lontano da questa realtà: «La cosa più difficile è proprio entrare nel cuore e nello spirito di queste ragazze, mettersi nei loro panni», dice suor Lisa Bianco, responsabile della parte femminile della Comunità Shalom. Suor Lisa è da dieci anni in questa comunità, che ha conosciuto partecipando ad alcuni incontri di convivenza tra ragazzi e ragazze della comunità e altri giovani esterni, incontri che la Shalom promuove regolarmente. Attraverso questi contatti e i colloqui con suor Rosalina non solo ha ritrovato la fede, ma è fiorito «il desiderio di avvicinarmi sempre più al Signore».
Suor Lisa ha così mollato tutto per seguire Lui attraverso questa vocazione particolare: «Una cosa indescrivibile – dice – ho preso questa strada senza sapere cosa mi sarebbe aspettato, avevo fiducia totale in Dio senza pretendere nulla in cambio». E Shalom è stata da subito una scuola di vita anche per lei, costretta ad «uscire dalle mie sicurezze ed entrare un po’ alla volta nel cuore di queste ragazze, a sporcarmi le mani con il loro dolore».
Lo stesso dolore che troviamo dai ragazzi: Alessandro ha 29 anni ed è entrato a Shalom da un anno, dopo una vita già rovinata quando aveva 13 anni: alcol e ogni tipo di droga. È arrivato a Shalom dopo anni di cure psichiatriche, culminate in un ricovero in ospedale perché si era bevuto un’intera boccetta di sedativo prescritta da uno psichiatra per aiutarlo a dormire: «Sono arrivato qui che non sapevo più nemmeno chi ero, non avevo un obiettivo. Mi hanno portato mia mamma e mia zia per salvarmi». E qui, malgrado le difficoltà iniziali (è scappato due volte le prime settimane) ha ritrovato la serenità e la pace. Come Giovanni, 20 anni, tre di comunità, figlio di tossicodipendenti, iniziato alla droga già a 11 anni: a 14 era dipendente dalla cocaina, poi passato alle droghe sintetiche, finché sua madre, nel frattempo disintossicata, lo ha portato in comunità: «All’inizio ho fatto fatica, ma suor Rosalina è stata una seconda mamma per me, grazie a lei ho scoperto i miei tanti problemi».
Vedendoli oggi, tranquilli e sorridenti, impegnati nelle varie occupazioni che richiede la Comunità, si fa fatica a pensare quale inferno abbiano attraversato. Cos’è che hanno veramente trovato qui? «Ho trovato veri amici – ci dice Giovanni – persone che per me valgono e mi hanno aiutato a capire i miei errori e il male che ho fatto». «Ho potuto esporre i miei problemi – gli fa eco Alessandro – parlare, e loro mi davano una mano. Vogliono il tuo bene, se sbagli ti viene detto e anche come cambiare quel modo sbagliato».
«Ho conosciuto ragazze che avevano sofferto come me – dice anche Ester – e mi ascoltavano. E vedere tutte quelle ragazze sorridere, mi faceva nascere un desiderio: perché lei sì e io no? Alla fine è una questione di scelta, e io mi sono messa in gioco».
«Le persone non hanno mai mollato con me, e nella suora ho trovato una persona che ha creduto in me» dice Eva, aggiungendo un fattore importante: «E poi il perdono, attraverso la fede. La preghiera mi ha salvato e mi ha fatto intraprendere il percorso del perdono. Perdono a me stessa e a chi mi ha fatto del male. Senza perdono non c’è psicologo o psichiatra che ti faccia andare avanti».
La preghiera sembra proprio un fattore decisivo per la rinascita, perché solo in Cristo è possibile dare pienamente senso a dolore vissuto. Racconta Ester: «Mi è stato detto: “Parla con Lui, guarda la Croce”; allora guardo e ho iniziato a piangere, un pianto liberatorio: tutta la sporcizia veniva fuori, allora Gli ho detto “Aiutami a portare la Croce”».
La rinascita inizia da qui e, come dice Alessandro, «la preghiera aiuta a trovare la serenità e la pace». Ovviamente non è un cammino facile, ma c’è il fascino di una vita che ricomincia, della persona intera che rifiorisce, perché alla Shalom si riprendono gli studi, si impara un lavoro e quando escono hanno già una prospettiva sicura.
Ester in comunità si è diplomata come operatrice socio-sanitaria e a settembre inizierà l’Università, Giovanni ha già deciso che farà il cuoco, lavoro che ha imparato qui, Eva non vede l’ora di tornare a vivere con suo figlio e la famiglia, «felice e libera dal male». Disintossicarsi è solo una parte del cammino terapeutico; vivere, affrontare tutte le circostanze della vita con un senso e con la dignità di esseri umani, è molto più che non essere più dipendente: «La mia vita era vuota, ora sono tornata a essere una donna, con una dignità», dice Eva. E Alessandro: «Ero vuoto, ora sono pieno di cose belle».
(Con la collaborazione di Marinellys Tremamunno)