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Dall'ideologia alla realtà: il difficile cammino dell'Ursula2

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L'obiettivo politico della “nuova” Ursula sembra essere quello “democristiano”, di attuare un cambiamento di linea dell'Ue sui principali dossier (green deal, immigrazione, guerra) “metabolizzandoli” lentamente. Ma il tessuto istituzionale comunitario rischia di infrangersi rovinosamente o di degenerare in aperto autoritarismo.

Esteri 25_09_2024

Sembra davvero passato un secolo, e non appena poco più di tre mesi, dalla fase immediatamente successiva alle elezioni europee, quando i principali azionisti della “maggioranza Ursula” - socialisti, liberali macronisti e popolari - proclamavano baldanzosi che l'avanzata delle destre sovraniste non avrebbe cambiato niente nell'assetto di potere delle istituzioni comunitarie e non avrebbe influito nella composizione della nuova Commissione. Emmanuel Macron, Olaf Scholz e il presidente del gruppo Ppe Manfred Weber asserivano con tono di sfida che nonostante la crescita delle “opposizioni” la coalizione politica che aveva sostenuto la Commissione guidata da Ursula von der Leyen non era cambiata, che la presidente andava riconfermata, che la sua investitura e la formazione della nuova compagine andavano fatte al più presto senza troppe discussioni, e che non si sarebbe dovuto assolutamente ammettere nell'inner circle dell'Unione nessuna forza della cosiddetta “destra estrema”.

Quell'arroccamento in una logica quasi “frontista” (la stessa che abbiamo visto all'opera ultimamente da parte dell'establishment progressista nelle contese elettorali di molti paesi occidentali, con esiti quanto meno discutibili) costituiva in realtà un tentativo velleitario di forzare la situazione per limitare il più possibile un esito che invece i risultati elettorali, e la situazione politica ed economica complessiva del continente, indicavano come sostanzialmente inesorabile: il superamento dell'impostazione ideologica e rigidamente dirigista portata avanti dalla von der Leyen durante il  suo primo mandato – in particolare sui temi del green deal e dell'immigrazione - e una rimodulazione più realistica dei principali obiettivi politici comuni. Una rimodulazione che tenesse conto del profondo malessere diffuso in quasi tutti i paesi membri, del quale la crescita dei consensi sovranisti, ma anche il rafforzamento dei popolari, che raccolgono una parte dell'opinione moderata e anti-ideologica, era l'evidente espressione.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e gli alfieri della continuità a tutti i costi sono apparsi in tutta la loro debolezza non più occultabile. La sfida spregiudicata di Macron, con la convocazione di elezioni anticipate e il “blocco” anti-Rassemblement national al secondo turno, è sfociata solo nell'ingovernabilità del paese, e alla fine ha trovato come unica soluzione un governo di decantazione costretto a cercare proprio l'appoggio della destra di Marine Le Pen e Jordan Bardella. E per l'altro dioscuro dell'"ursulismo" senza se e senza ma, il cancelliere tedesco Scholz, le cose sono andate ancora peggio: la vittoria di Alternative für Deutschland e Sarah Wagnknecht in Turingia e Sassonia, il crollo socialista in quelle regioni, addirittura il testa a testa tra socialisti e Afd persino nella roccaforte “rossa” del Brandeburgo; e, sul piano economico, l'ormai evidente collasso dell'industria automobilistica tedesca, dovuto proprio alle sconsiderate politiche di eliminazione dei carburanti fossili e di transizione all'elettrico sponsorizzate dalla Commissione von der Leyen, con il conseguente “sfondamento” da parte della concorrenza cinese.

Più in generale in tutto il continente i segni di una situazione insostenibile si sono fatti sempre più marcati, e la tendenza dell'elettorato a premiare gli oppositori delle piattaforme dominanti nel passato quinquennio viene ad ogni occasione puntualmente confermata, se non ulteriormente accentuata.

In tale contesto le trattative per la formazione della nuova Commissione, sia pure sottotraccia, si sono indirizzate ben presto in una direzione più realistica di quanto la retorica ufficiale della “maggioranza Ursula” avrebbe voluto lasciar intendere. La von der Leyen, consapevole che la sua aspirazione a ottenere un secondo mandato avrebbe potuto essere soddisfatta soltanto a patto di un cambio almeno parziale di direzione e di una maggiore disponibilità ad accogliere qualche voce critica sull'operato della sua prima compagine, ha tessuto una tela complessa di contatti e ha costruito un mosaico di elementi diversificati, che si è completato a settembre con l'annuncio di un nuovo organico caratterizzato da differenze assai significative rispetto al precedente.

La vicepresidenza esecutiva affidata a Raffaele Fitto, indicato dal governo italiano e membro del gruppo dei conservatori, così come il visibile rafforzamento della componente popolare nell'organico dei commissari e l'ingresso di un rappresentante del gruppo dei Patrioti, sia pur presentato come indipendente (l'ungherese Olivér Várhelyi), sono stati un segno visibile di cambiamento, per quanto misurato con il bilancino, e frutto naturalmente dell'intreccio tra logica di convergenza politica e di accordo intergovernativo. Ma un segno, se possibile altrettanto importante, è stata l'esclusione dalla Commissione di alcuni protagonisti politicamente “ingombranti” della passata gestione: in primo luogo Thierry Breton, ex commissario al mercato interno e ai servizi, tra i più attivi nel promuovere la “moderazione” censoria dei media digitali, scaricato dalla presidente e da Macron in favore del suo ex ministro degli Esteri Stéphane Séjourné; e Margarethe Vestager, già commissaria alla concorrenza.

L'obiettivo politico della “nuova” Ursula sembra essere quello, che si potrebbe definire lato sensu “democristiano”, di attuare un cambiamento di linea dell'Ue sui principali dossier “metabolizzandoli” lentamente e in maniera il meno percepibile possibile. In altre parole, correggere la barra del timone sul green deal, rendendolo meno stringente e annacquandone le scadenze senza rinnegarlo, e mostrare una maggiore fermezza sull'immigrazione magari concendendo maggiore autonomia di azione a determinati paesi (in primo luogo ovviamente la stessa Germania, ma è indicativa la richiesta appena fatta dal governo olandese in tal senso, che se approvata potrebbe fare da modello per altri).

Tuttavia i due temi più caldi (ma se ne potrebbero aggiungere altri, come soprattutto quello della libertà di espressione o l'oneroso impegno economico e militare senza fine e senza risultati in favore dell'Ucraina) non sembrano essere risolvibili con piccole  correzioni cosmetiche. I problemi urgenti che essi pongono – la stagnazione economica, la distruzione di interi comparti industriali, l'insicurezza dei cittadini, l'ombra della guerra, la compressione del pluralismo – sono il risultato di opzioni politiche e ideologiche di fondo.

Se quelle impostazioni non vengono abbandonate, se la Commissione e l'Ue non rinunciano all'idea di “salvare il mondo”, di “educare” i propri “sudditi”, di governare attraverso continue “emergenze”, la rabbia e la protesta delle società civili non si attenueranno, e anzi potrà soltanto aumentare, nutrendo ulteriormente partiti e movimenti anti-sistema, fino ad un punto in cui lo stesso tessuto istituzionale comunitario rischierà di infrangersi rovinosamente, o di degenerare in aperto autoritarismo.