Dalle tende ai mattoni: l'inedita lezione del Friuli
Ricorre domani il quarantesimo anniversario del primo dei due terremoti che colpirono nel 1976 l’alto Friuli causando quasi mille morti (300 nella sola Gemona) e la distruzione di circa 10 mila abitazioni. Si tratta fra l’altro della prima grande catastrofe del genere di cui esiste un’ampia documentazione di radio e Tv.
Ricorre domani, 6 maggio, il quarantesimo anniversario del primo dei due terremoti che colpirono nel 1976 l’alto Friuli causando quasi mille morti (300 nella sola Gemona) e la distruzione di circa 10 mila abitazioni. Si tratta fra l’altro della prima grande catastrofe del genere di cui esiste un’ampia documentazione televisiva e radiofonica, peraltro di ben maggiore qualità di quella che in circostanze simili si avrebbe oggi.
Gli inviati non erano ancora ragazze e ragazzi sportivi che, forti della loro scarsa conoscenza della situazione, sullo sfondo di un adeguato paesaggio ripetono banalità e luoghi comuni che avrebbero potuto benissimo venire a sapere anche senza muoversi da casa. Non gli si chiedeva ancora di sacrificare tutto alla velocità, anche l’intelligenza. Le troupe televisive restavano a lungo sul terreno e le interviste non erano casuali. Negli archivi radiotelevisivi della Rai, le cosiddette “teche Rai”, c’è perciò al riguardo un materiale enorme, che speriamo venga riproposto al pubblico.
Si tratta fra l’altro di una vicenda della quale ho un’intensa memoria personale essendo stato fra i molti che contribuirono come volontari all’opera di soccorso e poi alla gestione dell’emergenza. Fra l’altro scrissi al riguardo un “instant book” uscito nel dicembre di quel medesimo 1976. Edito da Jaca Book col titolo Friuli: dalle tende al deserto?, il libro è una testimonianza immediata della situazione nei primi mesi seguiti alla catastrofe. Gli venne aggiunto mio malgrado il sottotitolo ad effetto “Scena e retroscena di una ricostruzione mancata”, che non corrisponde al suo contenuto né tanto meno a quanto accadde in seguito, e di cui pure conservo personale memoria avendo avuto qualche ruolo nei successivi anni della ricostruzione.
Continuo invece a riconoscermi nella sostanza dei suoi contenuti anche se ovviamente alcuni giudizi che vi si ritrovano potrebbero oggi essere più meditati di quanto allora furono. In sostanza, la gestione sia dell’emergenza sia della ricostruzione delle zone dell’alto Friuli colpite da quei terremoti si fondò sul principio di sussidiarietà. Un caso ante litteram dal momento che in quegli anni la parola e il concetto non erano ancora ritornati alla ribalta, ma finora anche il maggiore nel suo genere. Nel Friuli di quel tempo la sussidiarietà era semplicemente un dato di fatto, tanto è vero che non appena si poté cominciare a pensare alla ricostruzione, ogni tentativo di imporre soluzioni dall’alto e pianificazioni astratte “tipo Valle del Belice” incontrò un’immediata resistenza.
Già nella fase dell’emergenza tale prospettiva era stata peraltro contrastata e in larga misura respinta nel quadro di una vicenda molto significativa che merita di venire rievocata con attenzione. Si trattò del confronto, divenuto urgente con l’approssimarsi dell’inverno 1976-77, fra due diversi modelli di sistemazione provvisoria dei senzatetto. In un’epoca nella quale non esisteva ancora la Protezione Civile, della gestione di tale alloggiamento si erano fatti carico organismi di volontariato: l’Associazione Nazionale Alpini, gli Scout, Comunione e Liberazione e altri. Si registrava poi una consistente presenza di gruppi di sinistra extra-parlamentare.
Si confrontavano due posizioni: da un lato quella dalla sinistra extra-parlamentare (cui gli Scout per lo più erano subordinati) che puntava tutto sul ricovero dei senzatetto in grandi “tendopoli”; dall’altro quella di Cl e in genere delle parrocchie dei paesi colpiti, che in linea generale erano per le roulottes e altri alloggiamenti provvisori di cui ogni famiglia potesse disporre il più vicino possibile alla sua casa distrutta o comunque inagibile. Analogamente i primi erano per il trasferimento altrove (durante l’inverno negli alberghi dei centri balneari della costa friulana e veneta) degli anziani e dei bambini, mentre i secondi erano per dare ogni sostegno alla loro permanenza sul posto.
Sono evidenti i due diversi e opposti criteri alla base di queste scelte solo apparentemente tecniche. Nel primo caso si mira al… parcheggio remoto dei terremotati mentre altri provvedono a modo loro a ricostruirne i luoghi di vita e di lavoro. Nel secondo caso si intende evitare che al danno al patrimonio edilizio si aggiunga anche il laceramento del tessuto sociale ed economico; e si vuole consentire al terremotato di essere protagonista e non soggetto passivo della ricostruzione. Quello dei terremoti del 1976 in Friuli è, insomma, un caso, ahimè finora unico, di ricostruzione completata in tempi ragionevoli, e senza grandi scandali, di un’area colpita in Italia da una grande catastrofe.
Tutto ciò fu possibile grazie a circostanze in parte irripetibili: nel Friuli di allora (non so se anche in quello di oggi) nel campo delle costruzioni e dell’arredo c’erano diffuse risorse sia tecniche sia imprenditoriali. La ricostruzione ne fu agevolata ma non solo; divenne pure un volano di sviluppo per l’intera economia della regione. A parte queste circostanze specifiche, cui va aggiunta la forte tendenza dei friulani a fare da sé, ce ne furono altre che invece sono replicabili: in primo luogo un sistema di accertamento dei danni e di assegnazione dei contributi alla ricostruzione molto decentrato, basato sulla delega ai sindaci della massima parte delle responsabilità in materia. Un sistema garantito con efficacia molto più dal controllo sociale che dal controllo burocratico.
Si rivelò pure indovinata la richiesta che ogni paese venisse ricostruito “come era e dove era” rifiutando l’idea delle new towns anche a costo di restare più a lungo negli alloggi provvisori. Sarebbe il caso di studiare l’esperienza friulana per ricavarne insegnamenti utili in circostanze analoghe. Se lo si fosse già fatto si sarebbero evitati gli errori che stanno costando così cari all’Aquila, per fare l’esempio più recente.