Dall'adozione gay all'aborto: l'etica per via giudiziaria
C’è un potere legiferante che veste la toga. É la magistratura che ormai da anni si picca di voler trasformare le aule di tribunale in aule parlamentari secernendo sentenze contrarie alla legge, oppure se va bene, preter legem. L’ultimo pezzo di bravura lo abbiamo avuto un paio di giorni fa sulla selezione per scopi eugenetici degli embrioni.
C’è un potere legiferante che veste la toga. É la magistratura che ormai da anni si picca di voler trasformare le aule di tribunale in aule parlamentari secernendo sentenze contrarie alla legge, oppure se va bene, preter legem. L’ultimo pezzo di bravura lo abbiamo avuto un paio di giorni fa quando la Corte Costituzionale ha dichiarato legittima la selezione per scopi eugenetici degli embrioni prodotti tramite fecondazione artificiale, ma non la loro distruzione perché in tal modo – appuntava con precisione Giacomo Rocchi da queste stesse colonne (clicca qui) – nei freezer delle cliniche si potranno così ammassare scorte di embrioni utili per la ricerca.
I giudici in Italia sono stati sempre molto creativi in merito a questioni eticamente sensibili, così creativi che potremmo spingerci a dire che la giurisprudenza è diventata a buon diritto l’ottava arte. Per rimanere nel campo della fecondazione artificiale partiamo dalla sentenza n. 40 del 18 febbraio del 2004 in cui la Consulta ammette la possibilità di produrre più di tre embrioni per ciclo e di crioconservare gli embrioni eccedenti. Passa qualche anno e nell’aprile del 2014 gli stessi giudici eliminano il divieto presente nella legge 40 concernente la fecondazione eterologa, in cui uno o entrambi i gameti provengono da soggetti estranei alla coppia richiedente (sentenza 8 aprile 2014 n. 162). É poi di qualche mese fa un altro intervento della Corte costituzionale volto a far accedere alla pratica della fecondazione extracorporea anche le coppie fertili, ma affette o portatrici di malattie genetiche (sentenza 5 giugno 2015 n. 96).
Parli di provetta e subito ti viene in mente l’utero in affitto. Anche in questo campo i magistrati non sono stati con le mani in mano. Sin dall’anno 2000 si sono dati da fare come testimonia una decisione del Tribunale di Roma in cui il giudice Chiara Schettini motivò il proprio assenso alla pratica della maternità surrogata sostenendo che «la società è come un organismo in continua evoluzione» e che «l'abbandono della legge naturale […] induce a ridefinire il fenomeno della maternità ridisegnandone i confini». Vigente invece la legge 40 che vieta tale pratica, sono poi da segnalare due sentenze. Entrambe provenienti dal Tribunale di Milano ed entrambe emesse nell’aprile del 2014. Tutte e due le pronunce riconoscono lo status di “figlio” a un bebè avuto tramite maternità surrogata avvenuta in India in un caso e in Ucraina nell’altro. Il diritto di famiglia – spiega il giudice nella motivazione di una delle due sentenze - «è stato investito dalla dissociazione tra il dato naturale della procreazione e la contrattualizzazione delle forme di procreazione». E così conclude: «la stessa definizione della maternità è ormai controversa». E forse pure il ruolo dei giudici, chiosiamo noi.
Intanto che siamo in tema di figli di coppie bizzarre avute in modi altrettanto bizzarri e benedetti da giudici anch’essi molto bizzarri, parliamo di bambini affidati a coppie gay. Nel novembre del 2013 il Tribunale di Bologna affida una bambina di tre anni a una coppia omosessuale. Nel gennaio dell’anno seguente il Tribunale omologo di Palermo affida invece un 16enne sempre a una coppia gay. Negli anni a Napoli, Bologna, Catanzaro e Nicosia si sono registrati casi dove, a seguito di separazione, un genitore chiedeva l’affido esclusivo dei figli perché l’ex coniuge aveva una relazione con una persona dello stesso sesso. In tutti i casi il giudice ha risposto picche perché la relazione omosessuale non era di per sé pregiudizievole nei confronti dell’affido.
La vicenda più nota di questo genere è quella che ha visto come attori protagonisti un padre di fede islamica e la sua ex moglie, la quale essendo tossicodipendente frequentava i servizi sociali e si era invaghita di un’assistente sociale che lì lavorava. Alla rottura del matrimonio della coppia bresciana, la donna era andata a convivere con la compagna e aveva ottenuto l’affido esclusivo. Il padre era insorto preoccupato che la relazione omosessuale della madre potesse avere «ripercussioni negative sul bambino». I giudici di Cassazione nel gennaio del 2013 gli avevano dato torto: «non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l'equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale». E si aggiungeva che «si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino, che comunque correttamente la Corte d'appello ha preteso fosse specificamente argomentata», Insomma, il padre doveva provare dati alla mano che avere due “mamme” avrebbe provocato dei danni psicologici in capo al bambino.
Continuiamo a parlare di coppie omosessuali e spigoliamo qua e là nelle sentenze di questi giudici che si sentono i giustizieri della morale. Corte costituzionale sentenza n. 138 del 15 aprile 2010: nella nozione di formazione sociale «è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. […] Spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette». Sempre in tema di parafamiglie citiamo la sentenza n. 170 dell’11 giugno del 2016 della Consulta. I giudici in quell’occasione decisero che il matrimonio tra Alessandro e sua moglie era sciolto perché Alessandro era diventato Alessandra. Per il nostro ordinamento, infatti, l’unico matrimonio esistente è quello tra un uomo e una donna. Detto ciò, ovviamente anche in questa occasione i giudici sollecitarono il Parlamento ad approntare una qualche forma di riconoscimento della convivenza omosessuale, perlomeno a livello amministrativo.
La Consulta passò la palla alla Cassazione la quale nel gennaio del 2015 riconobbe da una parte che i due non potevano che essere considerati ex coniugi, ma dall’altra decise che occorreva «conservare alle parti ricorrenti il riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al vincolo matrimoniale». Cioè a dire: non più sposati ma con gli stessi diritti e doveri dei coniugi sposati. Sulla scia di queste pronunce ricordiamo il caso del cittadino uruguayano che ha ottenuto dal Tribunale di Reggio Emilia nel 2012 il permesso di soggiorno perché “sposato” con un italiano, con “matrimonio” celebrato in Spagna.
Continuiamo a trattare del tema “come ti ammazzo la famiglia”. Negli anni i giudici hanno assegnato alle coppie conviventi molti diritti propri dei coniugi. A mo’ di esempio: il diritto di succedere nel contratto di locazione, in caso di morte o di allontanamento del convivente locatario (Corte Cost., sent. 404/1988); l’assegnazione dell’alloggio nelle case di edilizia popolare (Corte Cost., sent. 559/1989); la risarcibilità del danno patrimoniale e non patrimoniale in caso di morte del convivente per il fatto illecito di terzi (Corte Cost., sent. 2988/1994).
Il tour della giurisprudenza creativa e corrosiva della morale naturale termina con due must. Uno riguarda l’eutanasia e l’altro l’aborto. Partiamo dal primo: come non ricordare la decisione del giudice delle indagini preliminari che ordinò nel luglio del 2007 il «non luogo a procedere» nei confronti del dottor Mario Riccio il quale così non finì in carcere con l’accusa di omicidio del consenziente per aver provocato la morte di Piergiorgio Welby? Poi venne la vicenda di Eluana Englaro con le pronunce della Corte di Cassazione e del Tribunale di Appello di Milano che nel febbraio del 2009 decretarono la morte di Eluana per fame e per sete.
Infine il tema aborto. Da annotare che i giudici non hanno mai cambiato una virgola della 194, segno evidente che questa legge più aborticida di così non può essere. Anzi, hanno messo in campo una difesa a tutto campo a tutela di tale norma: le decine di ricorsi per incostituzionalità della legge presentati alla Consulta nei primi anni di applicazione della 194 furono tutti e sempre respinti. Il gioco però non è stato soltanto di difesa ma anche di attacco. Nel 2001 e poi nel 2014 il Tar del Lazio ha scritto nero su bianco che la pillola del giorno dopo – preparato chimico con effetti potenzialmente anche abortivi – non poteva provocare aborti. Il ragionamento era questo: la gravidanza per i giudici inizia nel momento in cui l’embrione si impianta in utero e non al momento del concepimento. Dato che la pillola del giorno dopo impedisce l’impianto in utero dell’embrione, la pillola non è abortiva perché la gravidanza non è ancora iniziata.
Insomma, abbiamo capito che aria che tira nei tribunali sui principi non negoziabili. Da qui una proposta. Perché non avviare un corso di formazione al buon senso giuridico non per politici bensì per magistrati e futuri giudici? Un tentativo piccolo piccolo di strappare il monopolio della giustizia dalle mani della sinistra militante e degli ideologi radicali.