Dall'aborto al Family day: storia di un'ex femminista
Morena Mughetto era una ragazzina appena sedicenne quando ha abortito per la prima volta. Era una femminista militante, convinta che l’aborto fosse una tappa decisiva della liberazione delle donna. Oggi, Morena ha 55 anni, uno spirito forte e una salda fede in Cristo. Ecco il racconto della sua conversione.
«Siamo partiti da Biella, pioveva. Era il 1977, sarà stato maggio. A Milano l’aria é umida, fa caldo. C’è un’atmosfera surreale. Il posto è squallido, la stanza è squallida. Lui, il dottore, penso che sia un dottore perché è vestito con un camice che io ricordo grigio, é squallido. Sono stesa sul lettino ho paura, sono spaventata: di sicuro c’è che ho 16 anni, che ho pagato per quello sto facendo in clandestinità e che vorrei essere da un’altra parte. Non riesco nemmeno a capire cosa sta succedendo e invece sono qui con le gambe aperte. I suoi movimenti sono meccanici freddi, il viso però, il viso di quell’uomo proprio non me lo ricordo. Ricordo la mano di una donna che stringe la mia, è in piedi sul lato sinistro del lettino, me la stringe forte come se bastasse per confortarmi: è l’unica cosa che può fare per consolarmi è l’unica cosa calda che ricordo. Ma il volto del dottore non lo ricordo, nemmeno la sua voce. Oddio che male! Un dolore pazzesco, un dolore impossibile, un macchinario diabolico si accanisce su di me, sembra un aspirapolvere: no è un “aspira-bambini”. Stanno aspirando sto gridando dal dolore! Fa male! Perché sono qui? Basta lasciatemi! Il tubo di plastica si contorce, il rumore è terribile, il dolore insopportabile. Perché sono qui? Ah si lo so: in nome della lotta e i diritti delle donne: ma era proprio questo che volevamo?»
Le parole di Morena Mughetto squarciano la leggerezza di un sabato pomeriggio di primavera a Biella. Siamo alla tappa conclusiva della quarta edizione della Marcia per la Vita e nella piazzetta del Battistero soleggiata tutti trattengono il respiro. «Mi sento devastata, svuotata e il dolore non è solo fisico ma interiore: una tristezza infinita nero di questa giornata appiccicosa. Non so dire se ho più male nel cuore o nella pancia. Perché nessuno mi ha fermata?» L’anno successivo per quella ragazzina terrorizzata ci sarà un secondo aborto, questa volta nella legalità, ma non meno traumatico.
Oggi Morena di anni ne ha 55, uno spirito forte, una salda fede in Cristo e le idee chiare: «É giunto il tempo di dire cosa è giusto e cosa è sbagliato, di raccontare quello che ho vissuto sulla mia pelle. Oggi sono viva grazie a mia figlia Laura, che ha 18 anni. Posso dirlo con certezza, io che queste piazze le calcavo per chiedere quelli che credevo diritti». Parole che arrivano mentre il Tar del Lazio con una sentenza impone il divieto di obiezione di coscienza nei consultori e i giornali italiani titolano “hanno vinto le donne”. Un tempo forse anche Morena Mughetto, oggi impiegata all’Asl, avrebbe trovato il titolo azzeccato. L’abbiamo incontrata un sabato mattina, in una soleggiata Biella.
Che cosa ha reso la battaglia per i diritti delle donne attraente per te, a soli 16 anni?
Avevo un padre molto autoritario e sono stata di conseguenza sempre molto attratta dalle figure di donne forti. Ero curiosa e quindi leggevo parecchio, per esempio i libri di Angela Yvonne Davis, una figura fondamentale per il movimento femminista nero degli anni Settanta. Dopo le medie mi sono ritrovata iscritta, sempre da mio padre, alla scuola per Geometri. Un istituto di cui non mi interessava nulla ma che all’epoca era il ritrovo degli anarchici locali, si parlava di diritti e di rivoluzione, erano gli anni della contestazione, e quello è diventato presto il mio unico interesse. Volevo essere una donna forte e autonoma. Erano gli anni di Pannella, della Bonino. Da Biella ogni tanto si partiva e si andava a Milano, con alcune ragazze della mia città che erano legate al movimento femminista, per partecipare a riunioni in cui si parlava di amore libero, di autodeterminazione.
Perché sei arrivata ad abortire?
Quando sono rimasta incinta avevo solo 16 anni ed ero già andata via di casa. In pratica non ci ho nemmeno pensato. Sapevo che in città c’era la sezione locale dell’Aied, l’Associazione Italiana per lo sviluppo Demografico, legata ai Radicali. A Biella venivano da Milano due volte a settimana alcuni ginecologi disponibili a visitare e che all’occorrenza davano anche quelli che chiamavano “consigli a chi ne aveva bisogno”, ovvero indicavano cosa fare per abortire, lo sapevano tutti. Grazie ad una di quelle “dritte” finii in uno squallido stanzino di Milano, in una zona che oggi non saprei nemmeno rintracciare, so solo che avevo 16 anni, l’aborto era illegale eppure era tranquillamente accessibile, so che è stata una delle esperienze più terribili della mia vita.
E allora come l’anno successivo ti sei trovata nuovamente a vivere questa esperienza di morte?
Perché l’aborto era finalmente legale. Avevamo tanto combattuto e nel 1978 finalmente c’era la famigerata legge per la cosiddetta interruzione volontaria della gravidanza. Del secondo aborto ho un ricordo molto vago perché mi hanno sedato, alla memoria solo l’immagine di me che urlo, urlo tantissimo. Quando sento le ragazze che hanno preso l’aborto praticamente come un contraccettivo mi sento male perché non capiscono che questa cosa la pagheranno, la pagheranno cara. Perché i miei due bambini sono in cielo che mi aspettano. E io in Paradiso con Gesù e con i miei figli ci voglio andare, ma per capirlo sono passata dentro una sofferenza indicibile.
Come è arrivata la consapevolezza?
Sembrava che io volessi punirmi, cercavo l’amore di continuo e nel modo sbagliato, e non ho trovato nessuno che in questa ricerca spasmodica mi dicesse «basta fermati! Non è così che riempirai il tuo vuoto». Mi sono anche sposata, ma con un uomo debole che frequentava gruppi di Yoga ed era dipendente da vari guru e sedicenti maestri. Così ci siamo lasciati. Poi una nuova relazione, a 37 anni, e sono rimasta nuovamente incinta. Anche questa volta il padre non voleva avere nulla a che fare col bambino e mi ha chiesto di abortire, ma io ero cresciuta, maturata e consapevole e in quel caso non ci ho nemmeno pensato. Così è arrivata Laura. É grazie a lei, non ho paura a dirlo, che sono viva. Dandole la vita ho salvato la mia. Da quel momento tutto è cambiato. Grazie a mia madre, che ha sempre pregato tanto per me, ho iniziato ad avvicinarmi alla Chiesa Evangelica che lei frequentava, mi piacevano i canti avevo una certa curiosità rispetto al mondo spirituale, così andavo in chiesa, poi a forza di ascoltare la Parola ho iniziato a capire. Passo dopo passo mi sono trovata a leggere la Bibbia e realizzare che la Parola era viva ed era per me oggi. Piano piano ho iniziato a rileggere la mia vita, Dio mi ha accompagnato per gradi, così ho iniziato a pensare che avrei avuto due figli grandi e ho iniziato a stare male, male tantissimo, sono arrivata fino in fondo a questo tremendo dolore, però poi sono anche stata perdonata ed oggi mi sento immensamente amata. E tutto questo grazie all’incontro con Gesù, il solo che salva».
Tu hai partecipato al Family Day, alla Marcia per la Vita, sei stata in piazza con le Sentinelle in Piedi, guardando indietro come ripensi al periodo in cui le piazze le calcavi, ma dalla parte opposta?
Mi ci è voluto tempo e tanto dolore per capire che l’aborto è un omicidio. Noi parliamo di diritti ma al bambino chi ci pensa, come fa lui a esercitare il suo diritto di nascita visto che è stato concepito senza che lo richiedesse? Lui non può opporsi non può far niente, può solo morire. Se vogliamo parlare di diritti dobbiamo parlare di diritti di tutti, anche di quello del bambino! E dirò di più. Quando è nata mia figlia e me la hanno messa tra le braccia e l’ho guardata, il mio cuore si è sciolto in un amore che non ho mai provato prima. E in quel momento ho avuto la granitica certezza che se anche non avesse avuto le mani, i piedi, se avesse avuto una menomazione, un problema, non avrebbe avuto per me nessuna importanza, quella era mia figlia e io la amavo. La vita genera vita, dandole la vita lei ha salvato la mia.