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L'ANALISI

Dalla Brexit l’inizio della nuova Europa

In un’epoca in cui dal punto di vista economico l’intero mondo è ormai divenuto un mercato comune, da tale punto di vista che la Gran Bretagna sia dentro o fuori dell’Ue non conta poi moltissimo né per Londra né per Bruxelles. Ben diversa è, invece, la questione dal punto di vista politico. L’esodo di Londra è il segno del fallimento del progetto politico non dell’Europa in assoluto, ma senza dubbio di questa Unione Europea.

Politica 29_06_2016
Dalla Brexit una nuova Europa

Ieri, mentre il Corriere della Sera apriva la sua prima pagina con il titolo a caratteri cubitali “Borse in caduta, Londra bocciata”, trovava conferma la notizia che la già predisposta fusione fra la Borsa di Londra, Lse, e la Deutsche Börse di Francoforte sul Meno sta andando tranquillamente avanti, e il prossimo 4 luglio verrà proposta  all’approvazione degli azionisti della Lse.  

Dal momento che la Borsa di Londra è già proprietaria di quella di Milano, un potente triangolo di Borse valori va così a formarsi  a cavallo del nuovo “confine” che ora si disegna a seguito l’esodo della Gran Bretagna dall’Ue. Ciò aiuta a capire quale sia il peso reale di un evento che i proverbiali “padroni del vapore” dell’Europa continentale, di cui il Corriere è uno dei più fedeli araldi, si stanno affannando in questi giorni a descrivere come una svolta catastrofica.

Mentre, insomma, sulla scena politica si continua a gridare “al lupo, al lupo!”, nei diversi centri di potere del nostro tempo si procede considerando la Brexit per quel che è, ovvero una novità economica di rilevante importanza tattica, ma non strategica: un’emergenza di breve termine da gestire sì con attenzione, ma senza che ciò implichi alcun ripensamento degli obiettivi di lungo termine. In un’epoca in cui dal punto di vista economico  l’intero mondo è ormai divenuto un mercato comune, da tale punto di vista che la Gran Bretagna sia dentro o fuori dell’Ue non conta poi moltissimo né per Londra né per Bruxelles.

Ben diversa è, invece, la questione dal punto di vista politico. L’esodo di Londra dall’Ue è il segno del fallimento del progetto politico non dell’Unione Europea in assoluto, ma senza dubbio di questa Unione Europea. Diversamente da quanto in questi giorni in Italia e altrove si cerca di far credere, quello inglese non è stato affatto un voto “di pancia”. E tra l’altro nient’affatto un voto per la paura dell’immigrazione dall’Africa e dall’Asia in un Paese dove tale immigrazione è un fatto normale sin dagli Anni ‘30 del secolo scorso. Quello degli inglesi è stato più che mai un voto di testa e di cuore: un voto di gente che, anche sacrificando interessi immediati, ha detto “no” a un’Europa le cui istituzioni non hanno un’adeguata legittimazione democratica, a un’Europa che non è capace di gestire alcuna emergenza. 

L’esodo della Gran Bretagna dovrebbe perciò indurre l’Unione a un salutare esame di coscienza sulle ragioni profonde del voto britannico e su che cosa si potrebbe fare per uscire dalla crisi che tale voto ha messo in luce. È proprio questo, invece, che stanno cercando di evitare le élites al potere nelle istituzioni europee. Una significativa testimonianza di tale mentalità ci viene, fra l’altro ieri proprio sul Corriere, dal nuovo e invisibile ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Secondo lui «Brexit non è  la fine dell’Europa, ma il sintomo di una malattia che colpisce tutte le democrazie: la paura della modernità (…)». Una presunta paura che sarebbe il presunto frutto della «promessa disattesa fatta dalle classi dirigenti a partire dagli Anni 90» di un Bengodi che poi i fatti hanno smentito.  Tanto è sicuro Calenda del diritto di tali “classi dirigenti” a governare in eterno che non gli viene nemmeno il sospetto che la gente voti come vota (oppure non vada più a votare) proprio perché ne ha abbastanza di loro. 

Sulla base di questa sua acuta analisi, Calenda le investe anzi in esclusiva del  compito di tirarci fuori dai pasticci in cui proprio loro ci hanno messo. E in tale prospettiva illustra la sua ricetta che consiste in tre anni di investimenti pubblici fuori del Patto di stabilità e altre cose belle.  La questione della legittimazione democratica delle istituzioni europee non lo sfiora nemmeno. Per lui e per il suo mondo la risposta alla crisi ora esplosa non è in mano ai popoli ma «agli Stati membri, e in particolare a Francia, Italia e Germania (…)». Tanto più considerando che la Germania di oggi è quella riunificata, riabilitata e con la capitale di nuovo a Berlino in Prussia (ribattezzata pudicamente Brandeburgo), e non la Germania Ovest, fresca erede delle nefandezze del nazismo e con capitale a Bonn in Renania, tutto  ciò conduce irreparabilmente a un’Unione Europea a esclusiva guida tedesca. 

Che a Hollande e a Renzi venga riservato il ruolo di prime damigelle della cancelliera Merkel (come si è visto nel recente vertice a tre convocato non a caso a Berlino) potrà forse bastare a loro, ma di certo non è negli interessi né della Francia, né dell’Italia; né tanto meno del resto dell’Europa. I due maggiori Stati rimasti fuori, ossia la Spagna da un lato e la Polonia dall’altro, non tarderanno a reagire. E se poi i Paesi più legati a Londra, come l’Olanda, la Danimarca e la Svezia, dovessero cominciare a pensare di seguirne l’esempio si arriverebbe presto al collasso dell’Unione Europea in quanto tale. É inutile e pericoloso tentare degli aggiustamenti del genere. L’Unione non va aggiustata. Se non si vuole che crolli (e a questo punto sarebbe comunque meglio che non crollasse) va ripensata e rifondata.