Dal vangelo secondo Augias: la fede è solo superstizione
Perché crediamo ai miracoli? Perché dopo una catastrofe, i sopravvissuti raccontano di essere stati salvati dalla Provvidenza? La domanda rimbalza stranamente su Repubblica ma trova una risposta misera e desolante in Corrado Augias: la fede? Solo superstizione.
La domanda è di quelle capaci di far tremare i polsi anche al più tosto dei teologi: riguarda la vita e la morte degli uomini, il loro destino, chi lo guida e verso dove. E soprattutto perché a qualcuno basta uno stupido dettaglio, un insulso accidente per scampare a tragedie crudeli, assurde e senza pietà neppure per gli innocenti. La questione interessa tutti: chi ha in riserva almeno un briciolo di fede, ma anche quelli rassegnati a stare con i piedi sulla terra senza sperare in un Cielo vuoto e indifferente. La domanda la ripropone su Repubblica una lettera a Corrado Augias, il laicissimo e miscredente giornalista-scrittore e conduttore televisivo che con queste cose ci va a nozze. Ha indagato su Gesù, sul cristianesimo e, ultima fatica letteraria, anche sulla Vergine Maria, trovando alla fine ben poco di interessante. Certamente, niente di vero. Eppure, i lettori di Repubblica continuano a adorare questo messia, capace di dare una spiegazione accettabile e rassicurante a tutto, perfino ai miracoli.
«Perché crediamo ai miracoli?» è il titolo intrigante scelto da Augias per aprire la sua rubrica dove un lettore, Gabriele Barabino di Tortona, lancia la micidiale domanda. «Anche la tragedia dell’aereo della Malaysia Airlines», scrive, «ha confermato una specie di regola che si verifica in tante disgrazie. Una signora olandese, intervistata, ha detto che all’ultimo momento non aveva potuto prendere quel volo con la famiglia, sostenendo che di lassù qualcuno non aveva voluto che partisse. Così è successo per i sopravvissuti dell’11 settembre, e per altri in varie tragedie». Ed ecco che il signor Barabino si chiede perché gli scampati debbano sempre tirare in ballo tale “regola”: «Colpisce la certezza di chi esce indenne da un disastro che il Padreterno si sia occupato personalmente di lui mentre decine o centinaia di altre persone morivano. Capisco che sono parole dette a caldo, sull’onda dell’emozione provata, del sollievo per una morte scampata», ma preferirebbe, aggiunge lo scrivente, «il silenzio come segno di rispetto per il dolore altrui». Vabbè, questo Giuseppe Barabino da Tortona un po’ se la canta e un po’ se la suona, fa come Marzullo che invitava gli ospiti a farsi una domanda e a darsi una risposta. Comunque, la questione resta: al Padreterno importa davvero di noi, è lui che sceglie chi salvare, magari con la scusa che il taxi verso l’aeroporto resta bloccato nel traffico, e chi invece far precipitare nel nulla senza scampo.
«Il signore solleva un tema vecchio quasi quanto il mondo che è quello d’una possibile protezione divina», attacca seriosamente Augias che a questi temi senza età ci ha fatto il callo e pure la fortuna con i diritti d’autore delle sue santissime inchieste. La questione è complessa e vasta, dice, ma lui pur sfiorandola solo alla grossa, la chiude con sufficiente soddisfazione. Del resto, anche al povero Giobbe Dio non risparmiò tormenti e sventure e non si è mai capito, ricorda Augias, se era a causa dei suoi peccati o solo per la crudeltà divina che giocava con lui e lo sfidava. Ma la Bibbia è piena di questi innocenti perseguitati ingiustamente da Jhavè. E allora, rieccoci daccapo al quesito iniziale: perché?
«La risposta cristiana di fronte a simili difformità è che la volontà e i disegni dell’Onnipotente sono imperscrutabili». Una soluzione «indubbiamente comoda», perché citando Spinoza, Augias dice che neppure Dio può sfuggire alla leggi che lui stesso ha assegnato alla natura: compiere miracoli implicherebbe una mutazione della sua volontà, oltre che una palese ingiustizia. Dunque, se Dio c’è si chiama natura ed è del tutto inutile all’uomo.
Detto questo, il dottore della legge Augias passa alla seconda parte della sua risposta: la demolizione della fede, come atto contrario al buon senso e alla ragione, insomma una favola buona per i bambini e gli idioti. «In realtà, credere di essere salvi “per miracolo” appartiene all’ampia casistica delle superstizioni ovvero al bisogno comune a molti di confidare in una qualche protezione celeste». Però, caro Barabino, che vuole farci: i cattolici e i credenti sono gente così, hanno bisogno di amuleti da portare in tasca, di fare strani segni della Croce prima di far qualcosa, ma in fondo non sono cattivi e neppure pericolosi. Perciò, chiude Augias, «è una comprensibile debolezza di fronte alla quale si dev’essere tolleranti». Vabbè, meno male: nell’epistola secondo Corrado non è prevista la lapidazione per chi crede in Dio.
Dovessimo prendere davvero sul serio l’affermazione dell’esimio scrittore di Repubblica, lo faremmo scherzando con un: “Augias santo subito”. Paradosso negativo, per dire quanto di assurdo c’è nella sua apodittica, dunque antiscientifica, certezza che la fede «appartiene all’ampia casistica delle superstizioni», perché ci si affida a qualche (inesistente) “protezione celeste”, mentre la scienza vive nel dubbio, nella ricerca della verità. Beh, qui Augias scivola davvero nel pre-giudizio scientista, nell’ideologia e nell’anticlericalismo più fanatico. Con lo stesso criterio, sul fronte opposto, si potrebbe dire che i senza Dio sono dubbiosi perché l’ateismo impedisce di ragionare. Ma sarebbe una colossale sciocchezza, che nessun uomo di fede oserebbe dire ad alta voce. Perché irrazionale, ma ancora prima, contraria a ogni evidenza storica e reale.
Dunque, lo scrittore che quando si infila nei misteri della fede non è nuovo a questi tuffi nel vuoto (per lui santo Stefano, primo martire, è stato assassinato dagli stessi cristiani che complottavano tra loro) dovrebbe da principio tornare alla realtà. E prendere atto dell’immensa produzione intellettuale e scientifica che studiosi e credenti hanno offerto all’umanità. Da Galileo a Max Planck, uno dei padri della moderna fisica quantistica. E quei grandi dottori che trasformarono la saggezza dei greci e dei latini in una nuova visione del mondo ispirata proprio da Cristo, che trova in lui la luce per interpretare il mondo, con figure come San Francesco d’Assisi, che ha creato il nuovo umanesimo. E tanti altri protagonisti della nostra epoca: pensiamo a Madre Teresa o Massimiliano Kolbe.
Tuttavia, nel pronunciamento che rivela un atteggiamento chiuso e ottocentescamente abbarbicato a una concezione scientista e dogmatica, Augias solleva però un problema oggi fondamentale per tutti, per la coscienza individuale come per la cultura e la società. Lo stesso che, più di un secolo fa, il genio russo di Fëdor Dostoevskj esprimeva nell’inquietante domanda: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?». Certo, pure se Augias la mette in altra forma, la questione è la stessa. E cioè: la ragione, come capacità di indagare e comprendere il reale, basta a se stessa, è misura di ogni cosa oppure c’è un criterio di conoscenza che rinvia ad “Altro”? E riconoscere l’esistenza di questo “Altro”, significa per questo condannarsi a un livello di conoscenza inferiore, vietarsi, appunto, al ragionamento?
Il cristianesimo, come non si stanca di ripetere Benedetto XVI, è entrato nella storia come un Fatto reale, e solo come tale vi può permanere. La sua caratteristica è nel rendere contemporaneo e storico Gesù Cristo. Trattarlo come un mito o una credenza indimostrabile senza misurarsi con la pretesa che lo dichiara presente “qui e ora” attraverso la Chiesa e i suoi testimoni, vuol dire eludere il problema che da duemila anni si pone a ogni cultura, elle domande degli uomini.
E qual è la domanda più urgente e interessante per l’uomo, eppure così disattesa e appagata? Beh, quella sul senso dell’esistenza, sul desiderio di felicità. L’uomo, ci ricorda l’ateo Leopardi, ha il desiderio dell’infinito e della felicità che non si consuma. E il nostro tempo con le sue contraddizioni, le sue disperazioni, il suo massiccio rifugiarsi in scorciatoie nichiliste, pare proprio manifestare visibilmente questa sete. Ecco, Augias dovrebbe cercare di capire che qui sta la ragionevolezza della fede e la sua immensa capacità di comprendere il mondo e l’uomo in modo “scientifico”.
Don Luigi Giussani, maestro, educatore di migliaia di giovani e acuto interprete del dramma della modernità e della Chiesa italiana scriveva: «Amici miei, siamo in un'epoca di una pericolosità sterminata. Siamo in un'epoca in cui le catene non sono portate ai piedi, ma alla motilità delle prime origini del nostro io e della nostra vita». «L’Occidente», ci avvertiva don Giussani «sta non lentamente, ma violentemente spingendo tutta la realtà umana, anche nostra, verso il "gulag" di un asservimento mentale e psicologico inaudito: la perdita dell'umano, di cui Teilhard de Chardin segnalava già il sintomo più impressionante, che è la perdita del gusto del vivere». Beh, caro Augias, che ne dice di lasciar da parte la sua supponenza e scendere a questa altezza d’uomo?