Dal predellino al tombino: c’era una volta Forza Italia
Il 2016 non sarà solo l’anno in cui Silvio Berlusconi spegnerà 80 candeline. Con ogni probabilità sarà anche l’anno dello scioglimento di Forza Italia. Tanti indizi sembrano condurre verso il triste epilogo della parabola di un partito politico nato nel 1993 sulle ceneri della Prima Repubblica e ora ormai al tramonto.
Il 2016 non sarà solo l’anno in cui Silvio Berlusconi spegnerà 80 candeline. Con ogni probabilità sarà anche l’anno dello scioglimento di Forza Italia. Tanti indizi sembrano condurre verso il triste epilogo della parabola di un partito politico nato nel 1993 sulle ceneri della Prima Repubblica e ora sempre più incapace di accendere gli animi del suo tradizionale elettorato.
Nei giorni scorsi si sono accavallate tutta una serie di indiscrezioni funeste. La prima, che è anche la più concreta e incombente, è quella di una nuova diaspora di parlamentari dalle file azzurre, attratti dalle sirene di Denis Verdini, che ha un dialogo privilegiato con il premier e che quindi potrebbe, in futuro, garantire ai transfughi una ricandidatura in un ipotetico listone di centro capace di sfuggire alle tenaglie impietose dell’Italicum (premio al primo partito e sbarramento del 3% per l’ingresso in Parlamento). Tra deputati e senatori sarebbero dieci quelli pronti a votare col governo già alla ripresa dei lavori parlamentari, prevista per lunedì 11 gennaio.
La seconda voce, sempre più insistente, è quella di un ritiro del simbolo di Forza Italia per fare spazio a liste civiche capeggiate da nominativi che risultino trainanti nelle principali città capoluogo nelle quali si voterà per le amministrative (Milano, Roma, Torino, Napoli, Bologna). Gli ultimi sondaggi accrediterebbero Forza Italia di un misero 9%, che potrebbe essere facilmente mascherato con simboli alternativi in grado di valorizzare eventuali talenti locali. Anche perché, per converso, la Lega è in forte ascesa e veleggia attorno al 15%. La golden share di quello che resta della coalizione di centrodestra appare, quindi, sempre più saldamente nelle mani di Matteo Salvini, che, per incrementare ulteriormente questo travaso di voti da Forza Italia al Carroccio, potrebbe anche decidere di scendere in campo come candidato sindaco di Milano. Anche in caso di sconfitta, potrebbe far passare definitivamente tra gli alleati e agli occhi dell’opinione pubblica il principio della sua leadership e quindi la sua candidatura a premier anti-Renzi alle prossime politiche.
Quanto a Berlusconi, appare sempre più svogliato e disinteressato alle sorti, anche finanziarie, del suo partito. Quand’anche a maggio l’attesa sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dovesse sovvertire gli esiti della legge Severino e sancire la sua riabilitazione e la sua ricandidabilità, non è detto che il “brand Berlusconi” si riveli capace di attrarre ancora elettori nel tradizionale bacino di centrodestra, sempre più sensibile all’ascolto della cosiddetta narrazione renziana. La verità è che l’attuale centrodestra è una coalizione nella quale si ragiona sempre più al singolare. Ogni partito coltiva il suo orticello e valuta altre opzioni, la cosiddetta “exit strategy”, in caso di tramonto definitivo di Berlusconi.
Non c’è un programma politico unitario praticamente su nulla, se non in materia fiscale, dove genericamente si parla di taglio drastico delle tasse (ma è realistico parlare di flat tax al 15%?). Su riforme costituzionali, sistema elettorale, politica estera, europeismo, temi etici e su tante altre questioni cruciali per un’ipotetica azione di governo la Lega e Fratelli d’Italia non appaiono in sintonia con il resto della coalizione. I brandelli di Forza Italia sembrano invece schegge impazzite, l’un contro l’altra armate, e la vicinanza al capo appare l’unico criterio di distinzione tra chi conta e chi non conta, non essendoci ormai da anni momenti di effettivo coinvolgimento di iscritti e simpatizzanti.
Anche sui singoli territori interessati alle prossime elezioni amministrative non c’è traccia di unità. In regioni come la Lombardia, che pure si reggono su alleanze ampie che coinvolgono l’intero centrodestra (anche centristi e Ncd), i leghisti minacciano di sganciarsi dalla coalizione se gli alfaniani dovessero entrare in maggioranza e, specularmente, questi ultimi si dicono indisponibili ad un’alleanza di centrodestra che includa anche il Carroccio. In queste condizioni appare difficile immaginare un successo elettorale del centrodestra, privo di collante, di identità, di visione, di leadership credibili per il futuro. Il patetico vivacchiare delle ultime settimane, tradottosi nella perdurante incapacità di designare i candidati sindaci delle grandi città, la dice lunga sulla consolidata pratica dei berlusconiani di andare ormai a rimorchio delle scelte che farà il centrosinistra.
A Milano, ad esempio, se l’amministratore delegato di Expo 2015, Giuseppe Sala, vincesse le primarie del centrosinistra, il centrodestra candiderebbe probabilmente una figura di secondo profilo che non gli faccia ombra, considerati i buoni rapporti di Sala con molti esponenti di Forza Italia; viceversa, se a vincere le primarie fosse l’attuale vicesindaco, Francesca Balzani, ostile al premier, potrebbe scendere in campo contro di lei lo stesso Salvini. Dunque, tutto di riflesso a quello che succede nel campo degli avversari. Un atteggiamento attendista, rinunciatario e segnato da sudditanza psicologica, culturale e politica. Davvero troppo poco per sperare di tornare in tempi brevi al governo del Paese.