Dal lutto alla vita
Carlo, dopo una vita tormentata e l'aborto di due figli, diventa volontario al Centro di Aiuto alla Vita della Mangiagalli di Milano.
“A che piano?” siamo all’ascensore della Mangiagalli, un portento di funzionalità!
Infatti fa fatica ad arrivare, non contiene i carrellini insieme alle persone, spesso è anche fuori servizio, ma va bene ugualmente perché ci porta alla sede del nostro Centro di aiuto alla Vita.
Quel signore saliva anche lui al terzo piano e mi sono un po’ meravigliata accorgendomi che percorreva il mio stesso tratto di corridoio. Gli ho così rivolto un sorriso immaginando che stesse venendo anche lui al CAV ed egli, un po’ imbarazzato, mi chiede: “E’ di qua il Centro di Aiuto alla Vita?”
“Ci sto andando anch’io!” e, mentre ci dirigiamo verso il fondo del corridoio, le mie “rotelle” cominciano a girare vorticosamente; che cosa vorrà, visto che non è così usuale che un uomo da solo venga da noi? Arrivati, apro la mia porta salutandolo cordialmente.
Quale la mia meraviglia quando Carmen, la nostra segretaria, mi annuncia un signore che chiede di parlare con la responsabile del Centro e mi accorgo che si tratta della persona incontrata salendo.
“Facciamolo entrare subito prima che arrivino le tante persone di tutti i giorni!”.
Gli stendo la mano e mi presento, pregandolo di accomodarsi.
“Mi scusi ma non ho compreso il suo nome”
“Mi chiamo Carlo” risponde con poca voce e poca convinzione; “spero di non essere venuto a farle perdere tempo prezioso” aggiunge come in tralice.
Lo rassicuro, conoscersi non è mai tempo perduto e tanto meno sprecato, invitandolo a raccontare e, se crede, a raccontarsi.
“Ho quarantadue anni e un passato strano. I miei primi anni li ho vissuti fuori dall’Italia: ero un bambino vivace, me ne andavo liberamente in giro, il più delle volte scalzo, per le strade di Buenos Aires, mescolandomi con tanti altri bambini e adulti, assaporando una grande sensazione di libertà che in futuro non avrei mai più provato.
C’era però un’ombra che offuscava la mia serenità: il mio papà era spesso assente!
Vedevo, alle partite di calcio, i miei compagni incitati dai loro papà che facevano un tifo sfrenato per loro, ma il mio non c’era mai. “Gli affari” diceva la mamma “lo tengono lontano, ma ci pensa, sai, non devi essere triste!” Queste parole non bastavano, e io sentivo una certa inquietudine.
Tornammo, io adolescente, in Italia; mi mancavano i grandi spazi e la sensazione di libertà!
Iniziai a frequentare certi ambienti dove sembrava che le regole di buon comportamento non esistessero; tutto era concesso. Anche le ragazze non si facevano troppi scrupoli morali e, ben presto, la giovane donna che frequentavo mi rivelò di essere incinta.
Nessuno si volle far carico di quella gravidanza, e tanto meno io.
“Oggi abortire è una cosa facile, conosco molte persone che non si fanno tanti problemi.”.
Volevo convincere lei o me? Ora sono sempre più sicuro che volevo voltarmi dall’altra parte e non pensarci più.
Passarono gli anni della prima giovinezza e mi ritrovai adulto con una vita tutta da inventare.
Quasi per caso mi misi anche a frequentare un gruppo di spiritualità: ci si considerava tutti amici pur senza conoscersi, si facevano delle riflessioni che mi suonavano abbastanza estranee, si parlava dei propri problemi.
Conobbi una studentessa alla fine della sua carriera universitaria e cominciammo a frequentarci illudendoci, forse, di provare un sentimento d’amore.
Ci fu una nuova gravidanza; non mi sentivo pronto per diventare padre (io non ho potuto imparare l’arte dell’essere genitore dal mio) ma mi convinsi che tutto stesse andando bene.
Così trascorsero i primi due mesi quando, con la prima ecografia approfondita, arrivò la sentenza di grave malformazione per il bambino che stavamo aspettando.
Avremmo potuto accompagnare quel bambino fino al suo spegnersi naturale, ma scegliemmo la via più “facile” e Laura si sottopose all’intervento abortivo.
Via via che il tempo passava, si faceva buio dentro di me: mi mancava lo slancio per ingaggiarmi in lavori impegnativi, la relazione con Laura si stava sfilacciando, non sopportavo di ritrovarmi in luoghi frequentati da mamme e bambini.
Affiorava il ricordo dell’aborto di anni prima e mi accorgevo di sentirmi sempre più depresso.
Le mie notti erano tormentate; facevo sogni in cui larghi paesaggi si interrompevano per trasformarsi in profondi burroni in cui mi sentivo precipitare per svegliarmi angosciato.
In quei sogni si affastellavano visi infantili, ma soprattutto grandi occhi mi guardavano interrogativi.
Perché?
Con questa ricerca di senso, ho iniziato a informarmi sui servizi alla maternità e alla genitorialità, e mi sono ritrovato a leggere del vostro centro dove viene anche praticato qualcosa che descrivete come “elaborazione del lutto”. Forse è di questo che ho necessità?”
Tentavo di riemergere da quelle molte parole che mi erano arrivate addosso, come sempre, senza preavviso; guardai Carlo per potergli dire che era stato bravo a individuare l’approccio utile.
“Sì, Benedetta, una nostra consulente, svolge esattamente questo compito: si tratta di un percorso di ordine psicologico che si compone di otto incontri, sempre dolorosi, in cui si cerca la via per perdonarsi.”
Carlo si dichiara pronto, non può continuare così.
Che cosa abbia elaborato in questo processo, non è dato sapere; so, però, che un po’ di tempo dopo, me lo ritrovo davanti con una richiesta ben precisa:
“Si ricorderà di me!? Ora sto meglio, il lavoro con Benedetta mi sembra sia andato bene, ma è come se non fosse ancora finito.”
Silenzio da parte di entrambi; silenzio di parole perché continuavamo a tenerci agganciati con gli sguardi, tentando di far scivolare fuori le emozioni.
Poi finalmente:
“Non so lei cosa ne pensi, io vorrei fare qualcosa di utile per le donne gravide in difficoltà.”
“Benvenuto fra noi!” mi venne spontaneo dirgli e, con un largo sorriso, cercai di mettere a fuoco con lui le sue possibilità di procurare aiuto.
Attualmente Carlo è uno dei nostri volontari più solerti.
La settimana scorsa, Antonella, una delle nostre mamme più sole, comincia ad avvertire i primi segnali del travaglio; siamo in anticipo e non abbiamo fatto in tempo a preparare tutte le cose che servono.
Momento di panico, il bambino di Antonella è nato, tra un paio di giorni uscirà dalla clinica e la carrozzina non è stata trovata.
Ma ecco la lampadina: “Carlo!” dico io illuminandomi.
E Carlo arriva con una bellissima carrozzina che diventa anche passeggino e seggiolino; si fa dare tutte le indicazioni e, con il suo tesoro, va a salutare Antonella regalandole anche una piccola somma che potrà aiutarla per gli acquisti più urgenti.
Darsi la mano è semplice.
La gioia di Carlo, una volta di più, mi confermava che ciò che riceviamo è molto di più di quello che riusciamo a dare!