Da Napoli a Kiev, in ricordo dello sterminio per fame
Ieri, la presenza del cardinal Turkson a Kiev, per la consegna degli aiuti della Chiesa alle popolazioni colpite dalla guerra, è coincisa con la Messa tenuta dall’arcivescovo greco-cattolico ucraino Sviatoslav Shevchuk nel duomo di Napoli. E' l'85mo anniversario dell'Holodomor, lo sterminio per fame in Ucraina ordinato da Stalin.
Ieri è stata una giornata importante per la Chiesa cattolica ucraina. La presenza del cardinal Peter Turkson a Kiev, per la consegna degli aiuti raccolti per volontà di Papa Francesco alle popolazioni colpite dalla guerra, è coincisa con la Messa tenuta dall’arcivescovo greco-cattolico ucraino Sviatoslav Shevchuk nel duomo di Napoli. Il 18 novembre, ieri per chi legge, è una data drammatica e importante: si ricordano gli 85 anni dall’Holodomor, letteralmente: sterminio per fame, voluto da Stalin, che ha colpito soprattutto il popolo ucraino nel 1932 e 1933.
Provocando un numero ancora sconosciuto di vittime, fra i 4,5 e i 7 milioni nella sola Ucraina, fu uno dei più grandi crimini del comunismo e nonostante questo (o forse proprio per questo) è ancora considerato un argomento “controverso”, poco studiato, mai commemorato al di fuori della repubblica ex sovietica. Ancora pochi Stati al mondo, fra cui il Vaticano, lo riconoscono come un atto di genocidio. Non l’Italia, benché per anni associazioni cattoliche fra cui soprattutto la Fondazione Don Sturzo, ne abbiano chiesto il riconoscimento ufficiale al Parlamento italiano. La Russia non nega l’esistenza storica dello sterminio per fame, ma non lo considera come un genocidio deliberato del popolo ucraino, bensì come un crimine di Stalin contro tutti i popoli sovietici. Anche milioni di russi nel Don e nel Kuban vi perirono, in effetti. Ma su un numero di vittime che va complessivamente dai 7 ai 10 milioni di cittadini sovietici, la stragrande maggioranza (dai 4,5 ai 7 milioni, appunto) sono ucraini. E lo sterminio per fame venne condotto dal regime di Stalin anche e soprattutto per stroncare l’orgoglio nazionale dell’Ucraina e piegarla alla “sovietizzazione”, alla rinuncia della nazionalità nel nome di una unità nel comunismo. Dunque non è arbitrario parlare di genocidio, cioè di un tentativo di eliminare del tutto o in parte un popolo dalla faccia della terra.
Come avvenne e perché, l’Holodomor? Perché la prima mossa politica di Stalin per concentrare tutto il potere nelle mani dello Stato sovietico fu l’abolizione della proprietà privata sulla terra. Con la Nuova Politica Economica varata da Lenin nella metà degli anni ’20, la collettivizzazione della terra venne resa volontaria e solo un’esigua minoranza di contadini, circa l’1% in Ucraina, accettò di vivere e lavorare in fattorie collettive. Stalin decise di accelerare il processo e procedere con la collettivizzazione forzata. Negli anni delle ultime riforme zariste e anche in quelli della Nuova Politica Economica, si era però formata una classe sociale di contadini relativamente agiati, possessori dei loro appezzamenti di terreno ed erano i più produttivi di tutti. Li chiamavano i “kulaki” (da “kulak”, pugno). Non erano certo dei grandi proprietari terrieri. Per rientrare in quella classe sociale bastavano “l'utilizzo di un operaio agricolo per una parte dell'anno, il possesso di macchine agricole un po' più perfezionate del semplice aratro, di due cavalli e quattro mucche”, come sintetizza lo storico Nicolas Werth. Stalin decise di annientare quella classe. Prima i kulaki vennero tassati oltre ogni loro capacità economica. Al tempo stesso, dal 1927, iniziarono ad essere vessati anche fisicamente dalle organizzazioni giovanili comuniste, che aizzavano loro contro i contadini più poveri. Infine incominciarono gli arresti e le requisizioni di prodotti agricoli e bestiame. E poi vennero tutti deportati, anche nelle regioni più remote e impervie dell’Unione Sovietica. Tutte le terre di loro proprietà vennero collettivizzate. E la realtà presentò subito il conto: la perdita degli unici contadini che sapevano mettere a frutto la terra e la mancanza di incentivi nel lavoro delle fattorie collettive provocò un drastico abbattimento della produzione. Il regime staliniano, che non ammetteva errori, diede la colpa ai contadini ucraini, ai cosacchi e ai russi del Don e del Kuban, li accusò di pigrizia, inefficienza ed egoismo, ipotizzando che nascondessero il raccolto e il bestiame per sé.
Da qui nacque la decisione, portata a termine con zelo e metodicità, della punizione finale: la morte per fame di intere regioni agricole. Fu un atto deliberato, perché la polizia politica, le organizzazioni comuniste e l’esercito sovietico requisirono sistematicamente i raccolti fino all’ultimo chicco e il bestiame fino all’ultimo vitello. Ai contadini non lasciarono nulla, sia per rispettare assurde quote di produzione, sia con l’intento di punirli per il loro “egoismo”. Non solo: le zone così depredate vennero anche chiuse, con l’introduzione di un regime rigido di passaporti interni. I prigionieri delle aree depredate impararono a sopravvivere in tutti i modi possibili, spesso regredendo fino allo stato ferino e abbandonandosi all’antropofagia. La leggenda nera secondo cui “i comunisti mangiano i bambini” deriva anche dalla carestia del 1932-33. E non è corretta, perché semmai furono i disperati a mangiare i bambini, anche i loro figli, a causa della repressione comunista. Chi provò a ribellarsi incontrò la morte istantanea dei plotoni d’esecuzione, o quella lenta della deportazione nei gulag.
Il numero di vittime di questo immane crimine è ancora del tutto impreciso. Lo storico Gabriele De Rosa, presidente della fondazione Sturzo, lo spiegava così in una sua intervista al Corriere della Sera rilasciata in occasione del 70mo anniversario dell’Holodomor: “Uomini e donne vennero processati, deportati, fucilati o mandati a morire di freddo e di stenti nei gulag artici più lontani, agli estremi confini orientali della Siberia. A milioni furono completamente cancellati, senza che né nomi né tombe fossero rimasti a testimoniare il loro passaggio sulla terra”.
Monsignor Shevchuk giunge a Napoli per commemorare l’anniversario di questo eccidio, nel momento in cui un’Ucraina ex sovietica non ha ancora trovato pace. Un nuovo conflitto, questa volta con una Russia post-sovietica, ha di nuovo fatto ripiombare l’Ucraina in una crisi umanitaria. Spiega l’arcivescovo greco-cattolico a La Repubblica: “L’Ucraina ha perso l’8% del proprio territorio e il 25% del suo potenziale economico e industriale. Nella zona si respira una grave catastrofe umanitaria perché quasi 4 milioni di abitanti di questo territorio sono intrappolati nella suddetta azione militare. Gli organismi per gli aiuti umanitari non possono accedere alla zona e portare aiuti alla popolazione civile che soffre. Inoltre, adesso si avverte una fortissima crisi ecologica perché la zona di Donbass è la zona delle miniere di carbone che sono state riempite delle acque sotterranee e chiuse. Di conseguenza, tutto il materiale chimico sta risalendo in superficie e sta contaminando l’acqua potabile. Dunque, nei prossimi mesi milioni di abitanti della zona non avranno più l’acqua potabile a disposizione. Si può, senza dubbio, affermare che l’Ucraina è una vera vittima di aggressione che vive la più grande catastrofe umanitaria d’Europa dopo la Seconda guerra mondiale”.
Per contribuire ad alleviare questa sofferenza, su iniziativa di papa Francesco, la Chiesa cattolica in tutto il mondo ha raccolto 11 milioni di euro, “a cui il papa ha aggiunto 5 milioni dai suoi stessi fondi”, come spiegava ieri, in conferenza stampa a Kiev, l’arcivescovo Claudio Gugerotti, nunzio apostolico in Ucraina. “Questa azione è stata annunciata, così che gli ucraini non si sentano soli e abbandonati”. Viaggiando fra le popolazioni colpite dalla guerra, nella linea di demarcazione fra l’Ucraina e le regioni separatiste filo-russe del Donbass, monsignor Gugerotti chiedeva loro di cosa avessero bisogno, soprattutto. “La risposta era: ‘sedativi. Non possiamo vivere ancora in questo incubo. Abbiamo bisogno di una pastiglia per dormire, perché non possiamo più addormentarci’. Andando in diverse chiese, ho visto la gente che tremava. E i bambini che, quando sentivano un suono, si nascondevano sotto le panche”. “Lo scorso anno – ricorda monsignor Turkson - durante l’incontro con la comunità del Pontificio Collegio Ucraino di San Giosafat a Roma, Papa Francesco ha esortato i futuri sacerdoti dell’Ucraina ad essere 'come le fiaccole accese nella notte… ricordando a tutti, specialmente ai poveri e ai sofferenti, e anche a quanti fanno il male e seminano violenza e distruzione', che la luce di Dio è qui, in questo mondo. Quando abbiamo il coraggio di portare il messaggio di Dio a coloro che sono afflitti, anche noi brilliamo come le stelle nel firmamento, diventiamo fiaccole per illuminare la notte e aiutare quanti sono attorno a noi a vedere il volto di Dio”.