Da Durban a oggi, l'islamofobia è un cavallo di Troia
Il termine islamofobia appare per la prima volta nel 2001 in un documento ONU firmato dai leader di quasi 200 paesi nel mondo. È un pretesto per chiudere la bocca a chi cerca di risvegliare un Occidente in declino.
Nel pensiero comune, gli allarmi sull’islamofobia nascono dopo gli attentati terroristici negli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, quando le minoranze islamiche nei paesi occidentali hanno cominciato ad essere viste con diffidenza se non aperta ostilità.
Niente di più errato. Il termine islamofobia ha una genesi precedente, sin dagli anni ’90 del XX secolo, e accompagna la rinascita islamica che si impone come fenomeno globale e che supera le divisioni e le differenze interne alla comunità musulmana. Ma soprattutto si impone alla comunità internazionale in occasione della Conferenza internazionale dell’ONU sul razzismo, svoltasi a Durban (Sudafrica) dal 31 agosto all’8 settembre 2001, pochissimi giorni prima dell’attentato alle Torri Gemelle.
Per la prima volta a una Conferenza dell’ONU è stato possibile assistere a questa sfida aperta dei paesi islamici contro l’Occidente. Argomento principale si rivelò il Medio Oriente, per il quale il blocco dei paesi islamici chiedeva con forza la condanna di Israele e di equiparare il sionismo al razzismo. Fu una battaglia durissima, al punto che le delegazioni degli Stati Uniti e di Israele abbandonarono la Conferenza. L’Unione Europea decise invece di restare, sperando – invano – in un compromesso dell’ultimo minuto. I paesi islamici andarono avanti compatti fino alla fine, una situazione sorprendente e inedita per chi – come il sottoscritto – era presente e aveva esperienza delle Conferenze ONU.
Due i motivi: primo, malgrado le grandi divisioni interne al mondo musulmano, sia politiche sia religiose, nell’occasione i paesi islamici fecero blocco, unendosi nella comune sfida all’Occidente: si percepiva in questi paesi, un senso di grande sicurezza e di consapevolezza della propria forza, ben decisi a usarla.
Secondo, la determinazione ad andare avanti con la loro agenda senza scendere ad alcun compromesso, la ricerca del quale era invece prassi in tutte le Conferenze internazionali dell’ONU. Il mondo islamico, dunque, riuscì a Durban a dettare la propria legge in barba alle consuetudini internazionali. Potendo contare anche sulla debolezza dei paesi occidentali, Unione Europea in testa.
È in questo contesto di prova di forza che il termine islamofobia entra nella Dichiarazione finale di Durban, prima volta che compare in un documento dell’ONU, firmato da quasi duecento paesi. Appare in due paragrafi della Dichiarazione finale: al no. 61, che recita: «Riconosciamo con profondo rincrescimento l’aumento dell’Antisemitismo e dell’islamofobia in varie parti del mondo». E al no. 150 che richiama gli Stati a «opporsi a ogni forma di razzismo, e a contrastare «l’antisemitismo, l’anti-arabismo e l’islamofobia a livello mondiale». Un vero e proprio assurdo storico, se si considera che eventuali episodi di discriminazione contro musulmani erano minimi e comunque condannati dalla stessa società occidentale. E comunque è un nulla in confronto alla sistematica discriminazione e persecuzione sofferta dai non musulmani, cristiani in primis, nei paesi islamici.
Anche l’attentato alle Torri Gemelle, avvenuto appena tre giorni dopo la conclusione della Conferenza di Durban, va situato in questo contesto di “rinascita islamica”. Questo non vuol dire che tutti i paesi islamici vadano ritenuti responsabili del terrorismo, ma è giusto osservare che il fenomeno terrorista ha anche un brodo di coltura che lo rende più forte. Così dopo l’11 settembre l’accusa di islamofobia viene sistematicamente usata per tappare la bocca a chiunque ponga anche solo qualche riflessione critica sul mondo islamico.
Fino ad arrivare al Rapporto sull’Islamofobia in Europa pagato dall’Unione Europea, di cui si parla in questi giorni, altro segnale inequivocabile che l’Europa politica ha scelto il suicidio.