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PIRANDELLO. GENIO DEL NOVECENTO/ 3

Da cosa nasce l’arte? Dall’osservazione della realtà

L’arte nasce da una finestra spalancata sulla realtà con quella potenza efficace che gli fornisce la ragione, da intendersi come un’apertura alla realtà che tenga in debita considerazione tutti i fattori. Da questo punto di vista, Pirandello sembra concordare con altri grandi geni del passato come Dante, Shakespeare e Manzoni.

Cultura 16_11_2014
Luigi Pirandello

Nel 1908, oltre al saggio L’umorismo, Pirandello scrive anche Arte e scienza. Ivi, se da un lato lo scrittore contesta quegli atteggiamenti che tendono a ridurre l’arte a disciplina dipendente e subordinata a fattori esterni, dall’altra si oppone a quelle considerazioni riduttive secondo le quali essa «si è ristretta specialmente per opera di Benedetto Croce a un’unica questione, a un’unica veduta, la quale, non riuscendo ad abbracciare tutto il complesso fenomeno artistico, [...] incespica in continue contraddizioni». L’unica questione cui allude Pirandello è l’intuizione. 

Il filosofo italiano Benedetto Croce (1866-1952) identifica, infatti, la veraarte solo con l’intuizione pura. Ritiene che l’arte sia su un primo gradino, quello dell’intuizione, la scienza su un secondo gradino, quello del concetto. Scrive Pirandello: «Il Croce […] pone due forme o attività dello spirito, una teoretica, distinta in intuitiva e in intellettiva, e una pratica. Con la forma teoretica, egli dice, l’uomo comprende le cose: con la forma pratica le va mutando: con la prima si appropria l’universo, con l’altra lo crea». L’arte per Croce è conoscenza «nel primo momento della intuizione», è attività teoretica, prescinde dall’attività pratica, è scevra di «sentimento» e di «volontà. Nel mondo estetico di Croce regna l’equazione: intuizione-espressione […]. 

L’attività estetica è considerata dal Croce come affatto indipendente». Quindi, a detta di Croce, solo alcuni episodi della Divina commedia possono essere considerati «poesia» (cioè arte), mentre gran parte del capolavoro (soprattutto nel Paradiso), soprattutto quando è troppo contesta di contenuti morali e religiosi, è catalogabile come «letteratura». Stiamo senz’altro con Pirandello quando afferma che la ragione non è certo secondaria nella realizzazione artistica. L’arte nasce, dunque, da una finestra spalancata sulla realtà con quella potenza efficace che gli fornisce la ragione, da intendersi come un’apertura alla realtà che tenga in debita considerazione tutti i fattori. Ci domandiamo, quindi, come possa l’arte davvero prescindere da essa e, ancora, come possa nascere solo da una delle facoltà umane, sia essa l’immaginazione o il sentimento o l’intuizione.

Dobbiamo, però, precisare che non è la ragione a produrre la bellezza, ma, al contrario, è la bellezza che muove la ragione. La bellezza esiste nella realtà e sprona l’uomo a riprodurla nell’opera d’arte, non esiste prima nella mente dell’artista se non per il fatto che questi l’abbia prima stampata nella propria mente osservandola nel mondo. Manzoni afferma nel dialogo Dell’invenzione che l'artista non inventa mai nulla. «Inventare» deriva, infatti, dal verbo latino «invenire» che vuol dire «trovare», «incontrare». L'artista è come se trovasse nel creato le impronte del Creatore. Esiste, quindi, sempre un rapporto molto stretto tra l'arte e la realtà. 

Pirandello sembra concordare con lui così come con altri grandi geni del passato come Dante e Shakespeare secondo i quali l’arte sgorga sempre da uno sguardo attento sulla realtà. Nel romanzo Il fu Mattia Pascal si legge: «Nulla s’inventa […] che non abbia una qualche radice, più o meno profonda, nella realtà; e anche le cose più strane possono essere vere, anzi nessuna fantasia arriva a concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal seno tumultuoso della vita». 

Certo ciò non significa che l’arte debba per forza essere verosimile. Qualche anno dopo la pubblicazione del Fu Mattia Pascal (1904), Pirandello appone una postfazione datata 1921 intitolandola «Avvertenza agli scrupoli della fantasia», nella quale risponde a quanti hanno tacciato di inverosimiglianza la bizzarra vicenda raccontata nel romanzo: «La vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire. Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità. Un caso della vita può essere assurdo; un’opera d’arte, se è opera d’arte, no. Ne segue che tacciare d’assurdità e d’inverosimiglianza, in nome della vita, un’opera d’arte è balordaggine. In nome dell’arte, sì; in nome della vita, no».

A riprova di ciò Pirandello riporta un articolo di giornale pubblicato su Il Corriere della Sera del 27 marzo 1920 in cui si racconta una vicenda del tutto simile a quella de Il fu Mattia Pascal, «il presunto suicidio in un canale; il cadavere estratto e riconosciuto dalla moglie e da chi poi sarà secondo marito di lei; il ritorno del finto morto e finanche l’omaggio alla propria tomba». La vita mostra sprezzo per ogni verosimiglianza. Non si deve, dunque, pretendere la verosimiglianza proprio dall’arte e dalla fantasia.