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DIPLOMAZIA

Cuba: il regime non cede, ma si apre uno spiraglio

Per ora, fra gli Usa e Cuba c'è stato solo uno scambio di prigionieri. E una promessa di Obama per la riapertura delle relazioni. E' già una svolta, comunque, e la si deve a quarant'anni di lavoro missionario e diplomatico della Chiesa, oltre che alla vigorosa iniziativa di Papa Francesco, iniziata un anno e mezzo fa. Uno spiraglio è aperto.

Libertà religiosa 19_12_2014
Raul Castro

La svolta storica delle relazioni fra Stati Uniti e Cuba, annunciata dal presidente statunitense Barack Obama che promette una riapetura delle relazioni diplomatiche, si deve anzitutto al Vaticano. Sia l’inquilino della Casa Bianca che Raul Castro hanno riconosciuto il ruolo da protagonista svolto da Papa Francesco.

Onde evitare future delusioni, però, va detto che l’annuncio di Obama e di Castro è stato seguito da un solo fatto concreto: la liberazione di Alan Gross, dipendente di Us Aid, prigioniero a Cuba da cinque anni per aver aiutato la locale comunità ebraica a bypassare la censura di regime e la scarcerazione di un agente segreto statunitense (che non è stato citato per nome) nelle galere cubane da ben 20 anni. E questo in cambio della liberazione, dalle carceri americane, di tre agenti segreti cubani. Un gesto distensivo, uno scambio di prigionieri, che dovrebbe fungere da “rompighiaccio” in un processo più ampio di disgelo. Ma a decidere la normalizzazione definitiva e la fine dell’ultra-sessantennale embargo all’isola, dovrà essere il Senato degli Stati Uniti. E i repubblicani, che a gennaio lo controlleranno, si dicono assolutamente contrari a quella che vedono come una vera e propria “ritirata” strategica degli Usa. Il regime castrista non vuole riformarsi, reprime il dissenso, non rispetta i diritti umani e, dunque, per i repubblicani, non merita alcuna concessione. Il processo di riavvicinamento, dunque, è ancora tutto da verificare.

Di certo, per ora, abbiamo un primo segno di distensione, tutt’altro che da sottovalutare. E a questo passo si è giunti dopo un lungo lavoro di diplomazia promosso soprattutto dal Vaticano. Si è trattato di un negoziato riservato, durato 18 mesi, tenutosi soprattutto in Canada e incoraggiato personalmente da Papa Francesco. La trattativa è culminata a ottobre con l’incontro fra alti funzionari statunitensi e cubani in Vaticano. Solo dopo questo percorso di riavvicinamento e ricostruzione della fiducia reciproca si è giunti alla telefonata di martedì fra Obama e Castro in cui si è deciso lo scambio di prigionieri. Nel corso di tutto il negoziato, Papa Francesco ha inviato lettere private sia a Barack Obama che a Raul Castro. E Cuba è stata oggetto anche del colloquio fra il Papa e il presidente degli Stati Uniti nel corso della visita di quest’ultimo in Vaticano, lo scorso marzo.

Se è giusto ricordare la svolta diplomatica come un prodotto della diplomazia di Papa Francesco, è anche bene ricordare l’impegno di Benedetto XVI, nel corso di tutto il suo pontificato. Il vescovo di Boston, Sean O’Malley, faceva parte della delegazione di papa Ratzinger durante la sua visita a Cuba, nel 2012, ed era, al tempo stesso, uno dei più assidui “pontieri” fra la Chiesa e il regime comunista caraibico, avendo incontrato ufficialmente suoi esponenti per ben sette volte.

Ma non è neppure con Benedetto XVI che inizia il dialogo fra la Chiesa e Cuba. I contatti sono iniziati molto prima. Giovanni Paolo II incontrò il “lìder maximo” Fidel Castro nel suo storico viaggio del gennaio 1998, quasi dieci anni dopo la caduta del Muro di Berlino. E “dal 1998 quando Giovanni Paolo II fece il suo storico viaggio a Cuba – ricorda Joaquìn Navarro-Valls - è passato del tempo. Ma non un tempo inutile. La chiesa cubana è stata accettata sia dalla gente che dal Partito; il suo riconoscimento anche come elemento attivo della società è stato quasi istantaneo in quel viaggio ed è cresciuto in questi anni. Perfino è stata accettata una mediazione della Chiesa in una delle molte questioni spinose del ‘corpus’ cubano. Fidel ha facilitato questi passi”.

A sua volta, il viaggio di Giovanni Paolo II era stato preceduto da un lento e costante lavoro condotto dal cardinale Roger Etchegaray. Durante la Messa di Natale del 1989, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, il cardinale era in missione a Cuba. Secondo le cronache dell’epoca, davanti alla folla, il Cardinal Etchegaray chiese durante l’omelia: “Che messaggio devo portare al Papa?” E la folla: “Che venga!” E il Cardinale: “Ho sentito il vostro messaggio. Non so cosa risponderà, ma di certo verrà”. Papa Wojtyla attese prima di andare a visitare l’ultimo paese comunista nell’emisfero occidentale. Attese chiari segnali di apertura, che, timidamente, incominciarono a manifestarsi nel corso degli anni ’90. Nel 1992, la costituzione cubana rinunciò all’ateismo di Stato e ristabilì la libertà di culto. Ma si dovette attendere fino alla visita di Giovanni Paolo II per ripristinare il Natale quale festa nazionale e alleggerire il controllo della polizia politica sulle chiese. Infine, solo dopo la visita di Benedetto XVI, dunque nel 2012, il regime riconobbe anche il Venerdì Santo quale festa nazionale. Fra queste due tappe, i sacerdoti e i vescovi cubani ebbero sempre più libertà di importare letteratura religiosa e incontrare i vescovi di altri paesi.

La storia della Chiesa a Cuba è dunque quella di un prigioniero che si è gradualmente liberato dalle sue catene. In un certo senso, la credibilità del regime, dopo la fine del comunismo, dipende soprattutto dal riconoscimento della fede cattolica, quale religione libera professata dalla stragrande maggioranza dei suoi cittadini. La Conferenza Episcopale degli Stati Uniti ha sempre accompagnato questo percorso, almeno da quarantadue anni a questa parte. Fu infatti nel 1972 che, per ripristinare il dialogo con la Chiesa cubana, i vescovi statunitensi avanzarono la richiesta di ritirare l’embargo, rispondendo all’appello dei vescovi cubani. Nel 1985 e nel 1989, prima della missione di Etchegaray, l’allora vescovo di Boston, Bernard Law, si recò all’Avana per incontrare Castro.

Questa lunga storia dimostra come l’apertura con Cuba sia sempre stato un obiettivo prioritario della Chiesa. Ma quanto è realmente libera la religione sotto il regime di Raul Castro? Ancora al giorno d’oggi, è molto limitata. La fondazione Aiuto alla Chiesa che Soffre riconosce un leggero miglioramento, soprattutto grazie alla restituzione di proprietà confiscate alla Chiesa. Tuttavia, nel Rapporto 2014, leggiamo: “Il Partito comunista controlla, di fatto, la vita religiosa, perché ha il potere di approvare le visite religiose, l’acquisto di edifici, la celebrazione di funzioni religiose in pubblico e, come detto, l’importazione di letteratura religiosa. Le scuole religiose non sono autorizzate, ad eccezione di due seminari cattolici e di alcuni centri di formazione inter-religiosi”.

I diritti umani, in senso lato, sono ancora repressi. Pensiamo solo al caso di uno dei dissidenti cattolici più famosi, Oswaldo Payà: nel 1996 chiese un ripristino delle libertà fondamentali tramite un referendum (il “Progetto Varela”) e nel 2002 Castro stroncò quella proposta definitivamente, dando inizio a un’ondata massiccia di arresti politici. Pur rispettando alla lettera la legge cubana, Payà condusse sempre una vita da sorvegliato speciale della polizia politica, finché non morì in un misterioso incidente stradale nel 2012. Tuttora, la figlia Rosa Maria ritiene che si sia trattato di un omicidio politico. I dissidenti che si recarono al suo funerale, fra cui il più noto era lo psicologo Guillermo Fariñas, vennero tutti arrestati. Fariñas stesso ha passato una vita infernale, fatta di continui arresti e costellata da 23 scioperi della fame per protesta. E’ ormai celebre la foto che lo ritrae, pelle e ossa, come uno scheletro vivente. Comprensibilmente, Fariñas non si unisce al coro di entusiasmo per la svolta diplomatica fra Cuba e Usa. Intervistato dal quotidiano spagnolo La Razon, dichiara che la fine dell’embargo e la distensione con il Nord America sarebbe “tutto combustibile per alimentare il regime”. Un regime che non ha, a suo dire, alcuna intenzione di aprirsi.

Sono soprattutto queste critiche che spingono sia i conservatori americani che gran parte della comunità cubana in esilio, a ritenere l’apertura come una mossa controproducente. E a contestare, anche, l’iniziativa del Vaticano. Ai critici, ieri, rispondeva punto su punto, il cardinale Timothy Dolan, di New York, sostenendo che la svolta sia stata comunque, “Una buona cosa”. “Perché? Punto primo, giusto per rassicurare o anche contraddire coloro che possono temere che questo sia un premio dato a Castro per la sua oppressione. Non lo è. Riaprire relazioni diplomatiche con quel governo, non vuol dire approvarlo. Ci sono molti governi nel mondo con cui potremmo non avere relazioni, se queste fossero l’equivalente di un’approvazione. Così, prima di tutto, questa apertura non significa dire ‘Castro ci va bene, il governo cubano ha ragione’. Assolutamente no. Secondo, la diplomazia è sempre preferibile all’aggressione o all’azione militare, o no? Nessuno deve sorprendersi che la Santa Sede abbia sempre preferito la diplomazia. La diplomazia è la scelta migliore e, attualmente, gioca anche un ruolo sempre più forte nella politica estera americana. E’ coerente con la teologia morale cristiana internazionale e con la tradizione americana. Terzo, e questo è molto importante da ricordare: se vogliamo che il governo cubano cambi, e pensiamo che possa farlo, e sono sicuro che il presidente Obama lo voglia (e la Santa Sede ha espresso critiche sul governo di Castro), non è meglio avere a disposizione un canale per esprimergli le nostre preoccupazioni, piuttosto che lasciarlo nel completo isolamento? Così le relazioni diplomatiche potrebbero fornire un modo più credibile per compiere quei legittimi cambiamenti che riteniamo necessari. E, quarto: non avere relazioni diplomatiche e mantenere un embargo economico sul paese, (…) sin dagli anni ’60, non sembra proprio aver provocato effetti. Lo stesso uomo, quello con la barba e il sigaro, è ancora alla guida del Paese”.