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L’analisi

Crollo delle Borse, la liquidità il fattore-chiave

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In poche sedute i listini azionari hanno perso mediamente il 10%. Ma più che domandarsi le cause dei tracolli dei mercati, bisognerebbe iniziare a chiedersi il perché dei rialzi. La variabile critica è l’immissione artificiale di liquidità, sganciata dall’economia reale. E poi c’è il ruolo dei grandi fondi di investimento.

Economia 07_08_2024
Nikkei 225 (5 agosto 2024, Ap via LaPresse)

Nelle ultime sedute abbiamo assistito a una violenta correzione sui mercati finanziari, che ha colpito simultaneamente Borse e materie prime, contestualmente a una discesa del dollaro statunitense, in particolare contro lo Yen giapponese. Il Giappone è proprio il Paese da dove è partito il sell-off. I listini azionari hanno perso mediamente il 10% in poche sedute, e le vendite hanno colpito tutti gli asset finanziari, compresi i metalli preziosi.

Ogni qualvolta accadono tracolli sui mercati finanziari, le vendite non risparmiano niente e nessuno. In termini tecnici si dice che le correlazioni tra le varie attività “vanno a 1”: scende tutto, e tutto insieme, e avere dei portafogli diversificati serve a poco. A fronte di correzioni violente, improvvise e generalizzate è normale domandarsi quali siano state le cause dei tracolli.

I vari commentatori si sono così affannati a fornire spiegazioni: nel caso specifico si è parlato di rischi crescenti di rallentamenti del ciclo economico, per di più in un contesto tuttora inflazionistico dove le banche centrali hanno poco spazio per tagliare i tassi, lasciando intravedere all’orizzonte lo spettro della cosiddetta “stagflazione”, il peggiore dei mondi possibili dove l’economia va male ma l’inflazione non si sgonfia; un’altra motivazione ha riguardato i crescenti rischi geopolitici, in particolare relativamente a una possibile estensione del conflitto in Medio Oriente; e poi una spiegazione “tecnica”, che riguarda la chiusura di posizioni di “carry trade”, particolarmente in yen giapponesi. Si tratta di operazioni di finanziamento in divise con tassi di interesse bassi per poi investire in asset denominati principalmente in dollari: la speranza è quella di guadagnare sia negli investimenti realizzati sia dal lato del finanziamento, se il cambio della divisa in cui ci si è indebitati, in questo caso lo yen giapponese, dovesse deprezzarsi. Nel momento in cui il “gioco” si rompe – nello specifico perché la Banca del Giappone ha deciso un aumento dei tassi di interesse, avviando una probabile normalizzazione della propria politica monetaria ultraespansiva – le posizioni debitorie in yen vengono velocemente chiuse, liquidando contestualmente gli investimenti effettuati in dollari. Ecco allora spiegato anche il contestuale deprezzamento del biglietto verde, in particolare contro la divisa giapponese. La “leva finanziaria”, in parole povere, si rompe. Tutto vero, ma balza subito agli occhi che nessun commentatore è mai riuscito ad anticipare tali fenomeni: le spiegazioni, per quanto razionali e convincenti, vengono sempre fornite ex-post, soltanto dopo che l'evento si è manifestato.

La considerazione che credo si debba fare è che a fronte di mercati che salgono sempre – come è accaduto negli ultimi anni, anche in presenza di cicli economici molto deboli – non vi siano stati sufficienti approfondimenti sui motivi dei rialzi. Sembra che quando i mercati salgono non ci sia nulla da spiegare; invece, quando scendono dobbiamo per forza individuare delle cause. Approfondire le motivazioni dei rialzi dei mercati ci aiuta invece a capire meglio anche le cause delle loro discese. Prendendola un po' alla lontana, possiamo dire che da circa 25 anni assistiamo a uno scollamento crescente tra le dinamiche dell'economia reale e le dinamiche finanziarie, in quel processo che possiamo definire di “finanziarizzazione dell'economia”. Anche in momenti economici molto negativi, pensiamo ad esempio al forte calo dell'attività economica durante i lockdown post-CoViD, dopo poche settimane di sofferenza i mercati hanno non solo recuperato le perdite ma addirittura messo a segno significativi apprezzamenti, senza correzioni degne di nota. Tant’è vero che le borse, anche considerando le forti discese delle ultime sedute, rimangono molto al di sopra dei valori pre-CoViD.

Quindi più che la discesa degli ultimi giorni dovrebbe stupirci la salita degli ultimi anni: in un mondo “normale”, il mercato azionario dovrebbe tendenzialmente riflettere l'andamento degli utili delle aziende quotate, a loro volta condizionati dal buon andamento del ciclo economico. Le aziende che hanno una buona prospettiva di visibilità degli utili tendono a salire in borsa, dove si quotano per raccogliere capitali per finanziare gli investimenti e quindi la propria crescita. La finanza, cioè, dovrebbe essere al servizio dell’economia reale: questo è quanto dovrebbe accadere in teoria, ma di fatto constatiamo che i mercati si muovono sempre più all'unisono, sia quando salgono sia, soprattutto, quando scendono.

La variabile davvero dominante sembra non trovarsi in considerazioni macroeconomiche fondamentali, e neppure di tipo politico come la “bontà” del governo di turno o la sua caduta, e neppure in tensioni sociali o di altro tipo, guerre comprese. Sembra che l'unica variabile davvero critica negli ultimi lustri, proprio a causa di questo insano processo di finanziarizzazione dell'economia, sia la “liquidità”, immessa nei circuiti finanziari dalle banche centrali e dal sistema bancario a riserva frazionaria. Il sistema bancario nel suo insieme, a livello mondiale, ha inondato di liquidità i mercati negli ultimi decenni, soprattutto dopo la grande crisi finanziaria del 2008-2009 e poi nell’ulteriore accelerazione post-CoViD, innescando un processo inflazionistico. La liquidità prima ha fatto salire le quotazioni delle azioni e i corsi obbligazionari (la cosiddetta asset class inflation) e poi si è scaricata a valle facendo lievitare anche i prezzi di beni e servizi: quella che viene comunemente definita “inflazione” ma che è in realtà solo l’effetto dell’inflazione vero nomine che riguarda l’ampliamento artificiale della liquidità a monte. Come l’acqua che, salendo, “solleva tutte le barche”, anche la liquidità quando aumenta provoca rialzi generalizzati, e ingiustificati, sui mercati azionari, obbligazionari e delle materie prime, indipendentemente dalla bontà della barca.

Il gioco si rompe nel momento in cui la liquidità diminuisce, come capita ora che le banche centrali si trovano costrette a contrastare i rialzi dei prezzi di beni e dei servizi, provocati in buona parte dalle passate politiche monetarie ultraespansive, mantenendo dei tassi di interesse elevati e adottando politiche di bilancio se non restrittive comunque non più espansive come negli anni precedenti. Se il rubinetto della liquidità inizia a chiudersi, e ancora di più se viene tolto il tappo della vasca, la diminuzione della liquidità fa sì che le quotazioni delle azioni, e più in generale degli asset finanziari, siano destinate a diminuire. La portata del calo dipenderà dalla diminuzione della liquidità, e potrebbe essere molto significativa.

Alla luce di quanto detto, diventa in un certo senso inutile cercare una spiegazione del perché, proprio in questi giorni, le borse siano scese: l'anomalia, semmai, è perché siano salite così tanto negli ultimi anni, in modo decorrelato rispetto all'economia reale. Alla fine la spiegazione che si potrebbe dare del perché le borse scendono, anche se sembra semplicistica e tautologica, è quella giusta: le borse scendono perché le pressioni dei venditori sono più forti delle pressioni degli acquirenti e questo accade tanto più velocemente quanto più i mercati sono concentrati. Pensiamo al peso di grandi fondi di investimento come BlackRock e Vanguard, che da soli controllano oltre 16 mila miliardi di dollari statunitensi in asset under management: quando questi fondi decidono di vendere, le borse inevitabilmente scendono, ed è diventato impossibile prevedere il timing di tali discese. Se i “mercati” azionari fossero dei veri mercati, con tanti compratori e venditori di cui nessuno in grado di condizionare le quotazioni, assisteremmo a dei fenomeni di graduale inversione di tendenza, con segnali a livello grafico che il trend sta partendo, poi inizia una correzione e infine si scatenano le vendite. Da molti anni, ormai, ci confrontiamo invece con fenomeni di repentino passaggio dall’ottimismo al pessimismo: come un interruttore che passa in un attimo da una posizione all'altra, da quello che sui mercati viene definito “risk-on”, cioè una fase favorevole, di propensione al rischio, a fasi di “risk-off”, cioè di avversione al rischio. Al di là delle spiegazioni ex-post di tipo tecnico, macroeconomico o politico/geopolitico, ciò accade perché i grandi fondi hanno deciso di liquidare le posizioni. Perché? Questo bisognerebbe chiederlo a loro, ma credo sia un esercizio inutile quello di affannarsi a spiegare le motivazioni fondamentali delle discese.

La verità è che il mercato finanziario non è più un vero “mercato”, in quanto eterodiretto politicamente e controllato di fatto da pochi grandi fondi di investimento, dove l'unica variabile che conta – oltre alle politiche fiscali dei governi – alla fine della fiera è la liquidità: liquidità che viene gestita dalle banche centrali, bracci armati dei rispettivi governi, e dal sistema delle banche commerciali a riserva frazionaria. Le dinamiche finanziarie perdono i contatti con la realtà dell’economia sottostante, sempre meno libera, e quindi si può passare da una situazione di euforia a una di panico senza soluzione di continuità, solo perché a un certo punto i flussi di venditori, schiacciando un interruttore, hanno rotto la diga. Ciò deve farci riflettere sul fatto che la finanza dovrebbe tornare a essere uno strumento al servizio dell'economia reale e non vivere di vita propria, in modo autoreferenziale. I mercati finanziari dovrebbero tornare a essere mercati veri, non più gestiti politicamente e condizionati dall'operato delle banche centrali, e dei governi. Ne va della libertà economica e della tutela del risparmio. L’alternativa è avere dei cicli economici e finanziari sempre più accentuati in cui senza motivazione evidente si passa da una situazione molto positiva a una molto negativa, o viceversa.

Alla luce di quanto detto, più che affannarsi per cercare di spiegare le motivazioni alla base della discesa delle borse, come accaduto in questi giorni, dovremmo invece iniziare a chiederci il perché dei rialzi, nella consapevolezza che le dinamiche di “socialismo finanziario” in cui siamo immersi da molti anni, a partire da Wall Street, rischiano di favorire le concentrazioni di ricchezza a beneficio di pochi e ai danni della classe media. Nella consapevolezza che chi sbaglia finanza, sbaglia economia.



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