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DA SVB A CREDIT SUISSE

Le vere cause dell'ultima crisi bancaria

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Nelle ultime settimane abbiamo assistito al fallimento di alcune banche statunitensi, nonché alla repentina acquisizione del colosso elvetico Credit Suisse da parte di UBS e quindi a forti tensioni in borsa sulla Deutsche Bank. Stati Uniti, Svizzera, Germania: non irrilevanti per i mercati finanziari mondiali. Che cosa sta accadendo? Parte prima.

Economia 05_04_2023
Silicon Valley Bank

Sono trascorsi quindici anni dal fallimento della banca d’affari statunitense, Lehman Brothers, il 15 settembre del 2008, evento iconico della Grande Crisi Finanziaria del 2008-09 (GCF), che dagli Stati Uniti si diffuse rapidamente in tutto il mondo facendo paventare un’implosione del sistema finanziario globale, dalle banche alle assicurazioni alle società di gestione delle carte di credito, producendo gravi e durature ripercussioni sulle Borse e sull’economia reale della maggior parte dei Paesi del mondo.

Oggi il sistema finanziario torna a tremare, profondamente scosso dal fallimento improvviso della grande banca statunitense Silicon Valley Bank, considerata una delle migliori del Paese e il secondo più grande fallimento bancario nella storia finanziaria americana, ceduta a First Citizens BancShares; a ruota è seguito poi il fallimento anche della più piccola banca commerciale Signature Bank. In Europa si è assistito quindi all’improvvisa crisi del colosso bancario elvetico Credit Suisse, una banca di rilevanza sistemica, tra le cosiddette too big to fail, così importante che la FINMA, l’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari, la fa acquisire in fretta e furia dal gigante UBS, a mercati chiusi il 18-19 marzo, per evitarne la bancarotta. Gli azionisti di CS non vengono neppure interpellati e subiscono un crollo delle quotazioni del 56% dal venerdì alla riapertura dei mercati il lunedì seguente all’accordo; ancora peggio va agli obbligazionisti detentori di titoli subordinati (in gergo “AT1”), il cui valore viene totalmente annullato d’imperio, per un controvalore pari a 17 miliardi di dollari. Le autorità regolamentari elvetiche creano in un sol colpo due pericolosi precedenti: il primo, a danno dei creditori “subordinati” che in modo del tutto irrituale sono stati sacrificati prima degli azionisti, ancorché la decisione fosse tecnicamente giustificabile in base alle clausole contrattuali; il secondo, a danno degli azionisti stessi, che non sono stati neppure interpellati sull’accordo. Si tratta, a ben vedere, di una sostanziale violazione del diritto di proprietà e dei contratti, che non fa certamente buona pubblicità al sistema finanziario svizzero: per di più considerando che rispetto ai massimi precedenti alla GCF, il titolo CS ha perso circa il 99% del proprio valore.

Il nervosismo sul comparto bancario si è presto esteso anche a Deutsche Bank, un’altra banca di rilevanza sistemica, tra le più grandi al mondo per attivo e fatturato. Il colosso tedesco, che non si era mai ripreso pienamente dopo la caduta subìta durante la GCF del 2008-2009, patisce un repentino tracollo in Borsa sul timore di insolvenza dei propri debiti, ben riflesso dall’esplosione di prezzo dei cosiddetti CDS, i Credit Default Swaps, strumenti acquistati a garanzia di possibili fallimenti del debitore, oltre che con finalità puramente speculative. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha espresso la sua fiducia nella banca il 24 marzo, dichiarando: «Non c’è motivo di preoccuparsi di nulla». Il valore in borsa di DB oggi è circa un decimo rispetto ai massimi precedenti alla GCF.

Le varie vicende presentano, com’è ovvio, delle specificità. Mi soffermo solamente sulle cause prossime del fallimento di SVB, cercando di individuare le cause remote che possono accomunare le differenti casistiche. La Silicon Valley Bank, come dice il nome, era un’importante banca della Silicon Valley, nell’area di San Francisco, California, specializzata nei finanziamenti alle start-up del settore tecnologico. La causa scatenante dell’improvviso collasso è stata la corsa agli sportelli da parte dei depositanti che hanno ritirato in fretta e furia le proprie giacenze per il timore di un’insolvenza della SVB, spinti anche dal panico diffuso dai social, e non si trattava certamente di fake-news. La corsa ai prelievi è stata innescata dal fatto che la maggior parte dei depositanti, principalmente aziende del comparto tecnologico, deteneva cifre superiori ai 250mila dollari, che è l’ammontare massimo coperto dalla garanzia sui depositi, in caso di fallimento, riconosciuta dalla FDIC, la Federal Deposit Insurance Corporation.

La SVB era a rischio di liquidità a causa di un’elevata percentuale di “perdite non realizzate” nel proprio portafoglio di proprietà: le giacenze liquide dei depositanti, infatti, erano investite in attività sicure in termini di rischio di credito, principalmente titoli del tesoro statunitense, ma non in termini di rischio di tasso. I forti rialzi dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve statunitense degli ultimi 12 mesi hanno infatti fatto crollare le quotazioni dei titoli governativi. Per i criteri contabili applicati anche in Europa, se detenuti fino alla scadenza (la quota di portafoglio denominata HTM, Held-to-Maturity) non comportano l’iscrizione a bilancio di eventuali minusvalenze (o plusvalenze) potenziali nel corso della loro vita, proprio in quanto considerati “immobilizzati”. Se però occorresse smobilizzare i titoli per fabbisogni improvvisi di liquidità, come quelli innescati dalla corsa allo sportello, ecco che dovrebbero essere liquidati ai prezzi di mercato, incorporando quindi di colpo perdite anche pesanti. Per rassicurare i risparmiatori ed evitare un possibile contagio su altre banche, i depositanti della SVB sono stati tutti “salvati”, col cosiddetto bail-in a carico di azionisti e obbligazionisti subordinati.

Dalle stime effettuate in uno studio recente (Monetary Tightening and U.S. Bank Fragility in 2023: Mark-to-Market Losses and Uninsured Depositor Runs?), risulta infatti che il settore bancario statunitense è gravato da “minusvalenze potenziali” non realizzate per circa 2mila miliardi di dollari, pari a circa il 10% del book value, il valore teorico del portafoglio di proprietà HTM. La mancanza di trasparenza rischia ora di provocare ondate di panico, magari anche immotivate ma comunque pericolose per la solidità del sistema, in particolar modo nelle banche dove esiste un’elevata incidenza di depositi superiori alla soglia dei 250 mila dollari, e in molte banche regionali di piccole e medie dimensioni dove tale copertura non è neppure prevista, col rischio di una fuga di capitali verso istituti più grandi.

Per scongiurare un effetto domino, la Fed ha varato il Bank Term Funding Program (BTFP), una provvista di liquidità messa a disposizione delle banche, per gestire improvvise crisi di liquidità a seguito di corsa agli sportelli, che verrebbero così scongiurate sul nascere. È comunque evidente che non rientra nella possibilità della Fed di effettuare un bail-out su scala globale, perché comporterebbe effetti inflazionistici devastanti. È quindi probabile che il credit crunch ci sarà: si consentirà, cercando di controllarla, una contrazione del credito sufficiente a raffreddare l’economia, in chiave disinflazionistica, mantenendo contemporaneamente i tassi di interesse su livelli elevati, attorno al 5%, in attesa di dati distensivi convincenti sui prezzi di beni e, soprattutto, servizi. La stabilizzazione dell’inflazione è fondamentale anche per non mettere in discussione il ruolo del dollaro statunitense come divisa di riserva del mondo, tanto più in un contesto di crescente frammentazione sul fronte geopolitico.

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