Cristiani in fuga dalle persecuzioni: subito lo status di profughi
Negli ultimi 5 anni la percentuale di cristiani tra i profughi che giungono sulle coste italiane è cresciuta di quasi il 30%. Lo dicono i dati dell'Aiuto alla Chiesa che Soffre, rete di volontari nata nel 2006 per sostenere i migranti e i richiedenti asilo in Italia. Allora, se si constata senza incertezze che una persona proviene da Mosul e che è un cristiano, non dovrebbe avere una corsia preferenziale e temi rapidi per il riconoscimento del suo status?
Se la si considera come un film, quale effettivamente è, e non come un insieme di immagini fisse, l’immigrazione ha oggi caratteristiche diverse rispetto al passato, anche recente. Continuare a dire «padroni a casa nostra» quando arrivano famiglie che hanno perduto tutto fuorché la vita a causa della fede significa bendarsi gli occhi, la mente e il cuore di fronte alla realtà; a questo atteggiamento corrisponde - all’estremo opposto, ma esito della identica volontà di non operare distinzioni - il tratto ideologicamente “immigrazionista” di chi mette tutto insieme e ritiene xenofoba ogni preoccupazione espressa in materia.
È sufficiente qualche numero: le persone sbarcate sulle coste italiane nell’intero 2010 sono state 4.406; nel 2014 si è raggiunto il numero di 170.100, e fino al 31 agosto gli arrivi via mare per il 2015 sono stati 116.127. In parallelo, ha conosciuto un’impennata anche il flusso via terra, che - non trascurando l’Italia - interessa in prevalenza gli Stati balcanici, in primis l’Ungheria: dal 1° gennaio al 31 luglio 2015 gli ingressi in Ungheria sono stati 102.342, seguendo la rotta Turchia-Grecia-Macedonia-Serbia. L’Ungheria ha un sesto della popolazione residente in Italia: più di 100.000 persone che vi arrivano in sette mesi equivale, in proporzione agli abitanti, a ingressi nel medesimo periodo in Italia pari a 600.000 persone.
Un fenomeno così complesso non ha un solo livello di possibile soluzione. É chiamata in causa anzitutto la Comunità internazionale: se centinaia di migliaia di persone preferiscono la fuga, accompagnata da ogni tipo di rischio, alla permanenza nel luogo di origine, è perché negli ultimi anni i conflitti si sono moltiplicati. Si riducono i profughi non se si alzano i muri, ma se si riducono le guerre. L’aumento di migranti nel Mediterraneo è l’effetto diretto - fra l’altro - dell’avanzata dell’Isis in Iraq e in Siria e della guerra in atto in Libia; nel Kurdistan iracheno ci sono oggi 200.000 profughi fuggiti a causa dell’Isis: immaginare che la questione continui a essere affrontata dagli Usa e da alcuni Stati europei con i droni, senza allestire una forza militare multinazionale che fronteggi l’Isis sul terreno e lo sconfigga militarmente - cosa ancora possibile in tempi accettabili -, significa mettere in conto che la popolazione in fuga aumenterà.
Avere incoraggiato in Siria, e in taluni casi rifornito di armi, a partire dal 2011 bande di combattenti stranieri ha permesso al Califfato di dilagare. Aggiungiamo l’assenza di iniziative occidentali di fronte alle crisi di Yemen, Somalia, Eritrea e Nigeria, differenti fra loro ma ciascuna teatro e causa di stragi, di devastazioni, e di fughe in massa che si riversano in Europa. Aggiungiamo l’atteggiamento ambiguo verso i profughi di una nazione come la Turchia, pure membro della Nato: tanto generosa ad accoglierli quando Assad doveva essere messo in difficoltà quanto oggi rapida a favorirne l’esodo verso Grecia e Balcani, a scenario regionale mutato. Finora sono mancati gesti realmente efficaci della Comunità internazionale, e non è realistico pensare che dalla sera alla mattina cambi tutto; è però indispensabile individuare delle priorità, da affrontare senza ritardo: sulle coste libiche e nell’immediato entroterra solo un intervento multilaterale mirato è in grado di distruggere a terra le imbarcazioni adoperate dagli scafisti e realizzare in condizioni di sicurezza, cioè con la protezione militare, centri di prima accoglienza e di smistamento in Europa di persone che un primo esame fa individuare come possibili rifugiati.
Oltre a condividere le responsabilità della Comunità internazionale, di cui è parte essenziale, l’Unione Europea deve risposte urgenti al proprio interno. É facile scagliarsi contro l’Ungheria per il muro di 250 km appena ultimato e per la resistenza a far entrare nuovi migranti; quest’atteggiamento è però inaccettabile se proviene da Stati europei che pongono barriere ancora più dure ai propri confini: si possono comparare i 102.342 (su poco meno si 10 milioni di cittadini ungheresi) entrati lì nei primi 7 mesi di quest’anno con i 6.698 che nello stesso periodo hanno raggiunto la Spagna (che ha più di 47 milioni di abitanti)? E ciò senza dimenticare le barriere poste a Calais dal Regno Unito o a Ventimiglia dalla Francia. La priorità è la revisione della Convenzione di Dublino, la cui applicazione letterale fa sì che i circa 400.000 profughi arrivati in Europa dall’inizio dell’anno venga ripartita, quanto a istruttoria della domanda di protezione e ad accoglienza, soltanto fra Ungheria, Italia e Grecia. Che non sia sensato lo ha riconosciuto il Cancelliere tedesco Merkel, che ha rilanciato il tema della revisione di Dublino e ha aperto le porte della Germania - che in termini assoluti ospita il maggior numero di rifugiati in Europa - ai profughi provenienti dalla Siria, a prescindere dalla regola dello Stato di primo ingresso. É un gesto politico importante e un passo in avanti nella revisione di Dublino, nella prospettiva di una distribuzione equilibrata in proporzione alla estensione territoriale e alla popolazione di ciascuno Stato membro: si vedrà quale è la condivisione fra i 28 Stati dell’Ue al vertice straordinario dei ministri dell’Interno e della Giustizia convocato per il 14 settembre.
La decisione di Angela Merkel, con specifico riferimento alla Siria, segnala una seconda pista di lavoro immediato, a rettifica degli automatismi che hanno prevalso finora: di fronte alla enorme quantità di richiedenti asilo, svolgere dettagliate istruttorie uno per uno - pur aumentando il personale e i mezzi - impedisce di dare risposte in tempi adeguati. Se si constata senza incertezze che una persona proviene da Mosul e che è un cristiano, non dovrebbe avere una corsia preferenziale e tempi più rapidi per il riconoscimento del suo status? Si pensi - per fare un altro esempio - alle persone che provengono dall’area intorno a Qaryatayn, in Siria, vicino a Homs: lo Stato Islamico si è impossessato di quel territorio due mesi fa e ha sequestrato 230 persone, delle quali non si sa più nulla. Un’indicazione del genere, che richiami l’attenzione sulla zona di provenienza e sulla confessione religiosa di appartenenza, applicata in modo omogeneo da tutte le Commissioni incaricate di valutare le domande di asilo in territorio Ue, renderebbe meno duro l’inserimento nel nuovo ambiente, dopo tante sofferenze provate.
Negli ultimi cinque anni la percentuale di cristiani tra i profughi che giungono sulle coste italiane è cresciuta di quasi il 30%. Lo dichiara il 10 agosto 2015 alla fondazione Acs-Aiuto alla Chiesa che Soffre don Mussie Zerai, sacerdote eritreo presidente dell'agenzia Habeshia, rete di volontari nata nel 2006 per sostenere i migranti e i richiedenti asilo in Italia. Come confermato dall'ultima edizione del Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo redatto dalla stessa Acs, le persecuzioni religiose - che nella maggior parte dei casi riguardano i cristiani - spingono sempre più persone nel mondo a cercare rifugio altrove, a cominciare dall’Italia. É evidente «l'alta percentuale di cristiani in arrivo dalla Siria, da dove proviene il maggior numero di profughi che approdano in Italia», aggiunge don Zerai. Anche tra gli iracheni vi sono molti cristiani, mentre tra gli eritrei - il secondo gruppo per numero di migranti - sono addirittura la maggioranza. «Molti dei nostri fratelli nella fede vengono dall'Africa. Tanti sono nigeriani in fuga da Boko Haram, ma ora che diversi gruppi fondamentalisti iniziano ad agire in altre nazioni africane, vi è il rischio che sempre più cristiani siano costretti ad emigrare».
In una intervista telefonica da Damasco fatta sempre ad Acs il 28 agosto, Samaan Daoud, che lavorava come guida turistica in Siria ha raccontato che «almeno tre volte a settimana un pullman parte da Duelha e Tabbale, due dei principali quartieri cristiani di Damasco, con a bordo venti o trenta ragazzi giovanissimi in cerca di un futuro migliore. Un mio amico ha da poco fatto partire suo figlio, di appena 16 anni». Il viaggio costa almeno 2500 dollari. Dalla capitale siriana si arriva a Beirut, da dove i profughi si imbarcano per raggiungere la Turchia e poi l'Europa. «Chi può permettersi di pagare di più può viaggiare in navi sicure. Gli altri devono rischiare la vita sui gommoni; in questi anni, molte famiglie siriane hanno trovato la morte in mare. Un cristiano», racconta, «è naufragato appena due settimane fa assieme alla sua famiglia al largo delle coste turche. L’uomo è stato seppellito in Turchia, mentre i corpi della moglie e dei suoi due figli non sono mai stati ritrovati; lo conoscevo bene, viveva nel mio quartiere e frequentava la parrocchia delle suore del Buon Pastore non lontano da casa mia. Un mio amico ha messo in vendita la sua casa per ottenere il denaro necessario a partire. Come lui molti altri che quasi sicuramente non torneranno più in Siria. E questo è il grande pericolo che affrontiamo tutti noi cristiani d’Oriente».
In Italia le Commissioni territoriali delegate a vagliare le domande di asilo sono raddoppiate rispetto a prima dell’emergenza (passando da 20 a 40), ma le richieste sono - a seconda degli anni - diventate da 5 a 10 volte di più rispetto al passato. Manca - ed è la lacuna più seria - una guida politica che monitori e controlli a periodicità ravvicinata il lavoro delle Commissioni: non per censurare i ritardi, ma per comprenderne le cause e - se per es. dipendono da carenza di mezzi o di personale - per provare a rimuoverle. Le ricadute sono gravi, in termini di decoro delle persone e di spreco di risorse: un padre di famiglia abituato a lavorare impazzisce nell’attesa per un anno e più, senza far nulla, della risposta alla domanda di asilo. Persone che hanno sulla loro carne i segni delle persecuzioni vivono l’umiliazione di un così lungo periodo di sospensione di attività per mostrare l’evidenza.
Senza violare le norme, il “lodo Merkel” - prima riassunto -, se adottato avrebbe effetti positivi sul lavoro delle Commissioni. Si è molto polemizzato sull’ipotesi che terroristi si infiltrino in Italia imbarcandosi sugli scafi che trasportano i rifugiati; sul punto non ci sono riscontri investigativi diffusi: in compenso, non si riflette che un giovane di vent’anni che ha presentato domanda si asilo e che trascorre per mesi le sue giornate nell’ozio, in attesa della decisione della Commissione, possa essere avvicinato, convinto e “reclutato” da gruppi terroristici presenti in Italia, o con maggiore probabilità da gruppi criminali. Quando ciò accade - e vi è riscontro che l’avvicinamento da parte di gruppi criminali vi sia -, non ci si deve meravigliare delle reazioni dei residenti nei luoghi che accolgono i migranti; né che le reazioni stesse mettano tutto sullo stesso piano. Anche la comunità ecclesiale è chiamata a un ruolo adeguato alla novità del momento. Ma di questo forse è il caso di trattare alla prossima.
* presidente della sezione italiana di Aiuto alla Chiesa che Soffre