Cristiani dalla "fine del mondo" alla Terra Santa
Il pellegrino che arriva dal Venezuela, ospite del Ministero del Turismo israeliano, dopo aver vinto un concorso. Lo studente cristiano arabo, che si sente costretto a "lottare per la fede" a casa sua. Chi sono i cristiani in Terra Santa.
La visita di Papa Francesco ha raccolto cristiani da tutto il Medio Oriente e da altre parti del mondo, anche dalla "fine del mondo", come Bergoglio definì l'Argentina. Durante la visita del Pontefice allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah, gli si avvicina un ragazzo vestito con il tricolore venezuelano, unica nota di colore in mezzo a un lago di vestiti neri. Quel ragazzo ha un nome lungo come un treno: Gustavo Adolfo Franco Picaza. E’ giunto in Israele per una circostanza insolita: il Ministero del Turismo israeliano aveva indetto un concorso di video sulla Terra Santa, da pubblicare sul social network Instagram e lui lo ha vinto; il problema è che Venezuela e Israele non hanno rapporti diplomatici, perché l’ex presidente Hugo Chavez li ha interrotti e il suo successore Maduro, che picchia sul tasto del populismo anti-occidentale, non ci pensa nemmeno a ripristinarli.
Per arrivare in Terra Santa ad incontrare il Papa, dunque, Picaza ha dovuto fare un viaggio lunghissimo via terra verso la Colombia, per ottenere i documenti necessari (sua madre è colombiana) e imbarcarsi su un volo per Tel Aviv. “Sono un cattolico praticante – ci spiega – per me è fondamentale venire qui, perché qui è nato e ha vissuto Gesù, qui Dio ha creato l’uomo, qui ha origine tutto”. Studente ventiduenne, di Maracaibo, è venuto per “rappresentare il mio Paese nella terra di Gesù. Soprattutto in un periodo così difficile per il mio Venezuela. E’ doppiamente importante pregare per la pace nel mio Paese. Vediamo sempre in televisione e leggiamo sui giornali che questa è una terra di guerra. ma qui la gente può vivere in pace e tranquillità, in una terra veramente benedetta da Dio. La guerra è nel mio Paese, piuttosto”. Della rivolta, in corso dallo scorso febbraio, ci dice che: “se anche si parla di un periodo di maggiore tranquillità, è solo perché è una bomba ad orologeria. La tensione scende per poi scoppiare di nuovo, perché questa rivolta è un sincero grido del popolo. Ormai nel nostro Paese manca tutto, medicine, cibo, beni di prima necessità. Si dice che sia una ribellione dei ‘ricchi’, ma protestano milioni di persone e fra questi i poveri sono maggioranza”. Spera che Papa Francesco arrivi personalmente in Venezuela, a negoziare una pace fra governo e opposizioni che è uno degli obiettivi diplomatici prioritari del Vaticano, “prego quotidianamente perché il Papa venga da noi”. Ci mostra il suo rosario: “è la mia arma preferita”, ci dice con sguardo determinato (e tutt’altro che inespressivo). “Lo prego tutti i giorni. Se vogliamo che il Venezuela esca dalla sua crisi, dobbiamo pregare il rosario tutti i giorni”.
Oltre a quelli che sono giunti dall’altra parte del mondo con viaggi rocamboleschi, ci sono anche dei cristiani che sono sempre vissuti qui, dall’alba del cristianesimo, eppure si sentono stranieri in casa propria. Jibril, uno studente che incontriamo a Gerusalemme, prima dell’incontro di Papa Francesco con il presidente Shimon Peres, si sente “onorato” per la visita del Santo Padre. Onorato e sollevato, finalmente, da una condizione di oppressione sociale continua. “Io personalmente sono sempre stato rispettato per la mia fede”, ci dice, mostrando con orgoglio un vistoso crocefisso che porta al collo, fuori dalla camicia, “tuttavia ci sono tanti miei amici che hanno subito aggressioni, insulti, discriminazioni. Soprattutto a Gerusalemme Est (la parte di città musulmana, ndr), ma qualche volta anche a Gerusalemme Ovest (ebraica, ndr). Il fatto è che molte volte sei spinto a doverti battere per la tua fede”. Di fatto ci dice la stessa cosa del coordinatore del Ymca che avevamo incontrato a Nazareth, usando le stesse parole, anche se non lo ha mai incontrato: “Mi sento arabo nei confronti delle autorità israeliane e cristiano di fronte ai musulmani”.
Incontriamo un barista cristiano, con una piccola riproduzione del volto di Cristo al collo, lavora nel bel mezzo di un quartiere interamente arabo, a schiacciante maggioranza musulmana. Alla domanda se si senta a suo agio in questa posizione ci risponde “sì”, in un primo momento, ma poi ci pensa bene e corregge con un “beh, non sempre”. Rotta la primissima inibizione si lascia andare a dire “a non tutti, qui, piace che siamo cristiani”. Comunque ammorbidisce con un “in ogni caso siamo già abbastanza fortunati. Almeno non viviamo in Egitto”.
Ormai minoranza in tutto il Medio Oriente, i cristiani sono vivi e hanno diritto di pregare così come di votare in Israele. Ma basta pensare alla vicina Siria per assistere al loro massacro quotidiano, all’Egitto dove oggi si continua a votare per la scelta del presidente e per la sorte dei cristiani, sospesi fra la vita e la morte da decenni. I cristiani mediorientali “ … partecipano a pieno titolo alla vita sociale, politica e culturale del loro Paesi – come ricorda Papa Francesco nel suo discorso tenuto ieri alla residenza di Shimon Peres – A partire dalla loro identità, desiderano dare il loro apporto al bene comune e al lavoro di costruzione della pace, come cittadini a pieno diritto che, rifiutando ogni estremismo, si fanno artefici della riconciliazione e della concordia. La loro presenza e il rispetto dei loro diritti (così come il rispetto dei diritti di ogni religione e di ogni minoranza) sono garanzia di un sano pluralismo e prova di solidità dei valori democratici, del loro radicamento nella prassi e della concretezza di vita di uno Stato democratico”.