Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
SCENARI

Crisi Taiwan, c'è bisogno di pompieri non di piromani

Dall’Ucraina ai Balcani, dal Medio Oriente all’Asia-Pacifico il mondo ribolle di tensioni che di giorno in giorno si fanno più pericolose. Soprattutto a inquietare è il fatto che di fronte agli incendi che scoppiano non ci siano pompieri disponibili. E la crisi di Taiwan è particolarmente pericolosa perché l'equilibrio poggia su alcune finzioni.

Editoriali 09_08_2022 English
Cartelli di benvenuto a Taiwan per Nancy Pelosi

Dall’Ucraina ai Balcani, dal Medio Oriente all’Asia-Pacifico il mondo ribolle di tensioni che di giorno in giorno si fanno più pericolose. Soprattutto a inquietare è il fatto che di fronte agli incendi che scoppiano non ci siano pompieri disponibili. Anzi, si ha l’idea che in questo clima aumentino i piromani in cerca di avventure. Il caso recente di Nancy Pelosi, speaker della Camera degli Stati Uniti, che si è recata in visita a Taiwan, apparentemente senza il consenso della Casa Bianca, provocando la reazione rabbiosa della Cina popolare, ne è un esempio eclatante.

Non c’è dubbio che il regime comunista di Pechino sia sempre più aggressivo e, sotto la presidenza di Xi Jinping, stia tornando ai “bei tempi” di Mao Zedong. E non c’è dubbio che le pretese di dominio su Taiwan si siano fatte negli ultimi anni più concrete, dopo decenni di sostanziale politica del “vivi e lascia vivere” e di aumento dei contatti e delle relazioni. Ma la visita della Pelosi ha avuto tutto il sapore di una provocazione gratuita, senza che fosse chiaro l’obiettivo strategico e il risultato che si voleva conseguire.

Soprattutto pone un problema di metodo: se si persegue la pace e la stabilità internazionale, davanti a un regime “pericoloso” si può cercare tutti i mezzi diplomatici e politici per contenerne il pericolo (la forza non si dimostra solo con le armi), oppure si può istigarlo per scatenare la sua cattiveria e giustificare così la formazione di una coalizione internazionale per combatterlo. Gli Stati Uniti tendono naturalmente a scegliere la seconda via, soprattutto le amministrazioni democratiche (soltanto il presidente Donald Trump si è distanziato da questa politica). Il che ha lo spiacevole effetto collaterale di destabilizzare le regioni interessate o quantomeno aumentare le tensioni. Le politiche di questi ultimi decenni – vedi Iraq e Siria, Balcani, Libia, Est Europa, solo per fare degli esempi – vanno tutte in questo senso. E chiunque può verificare che nessuna di queste regioni risulta oggi pacificata né diventata terra di democrazia e libertà.

Sia ben chiaro, questo non rende i regimi pericolosi e i leader malvagi meno pericolosi e malvagi, o meno responsabili delle loro aggressioni o violazioni del diritto internazionale. Tutt’altro, ma proprio per questo è necessaria la virtù della prudenza, che non è un modo per nobilitare la pavidità davanti al prepotente o per mascherare politiche di appeasement, ma è saper individuare e perseguire le strade migliori per mantenere o arrivare alla pace, che significa anche possibilità di sviluppo e progresso per tutti. Il ricorso alle armi può essere soltanto l’ultima, obbligata, scelta se non si può difendere l’integrità territoriale, la libertà e la giustizia internazionale in altro modo.

Il caso Taiwan è poi particolarmente delicato, perché l’equilibrio si regge su alcune finzioni, a cui tutti mostrano di credere proprio per evitare una guerra. La prima di queste è il principio di “una sola Cina”, a cui il presidente Usa Joe Biden negli ultimi giorni ha dovuto giurare più volte fedeltà per evitare reazioni ancora più severe da Pechino. Cioè l’idea che l’isola di Taiwan sia parte della Cina e quindi attualmente una provincia ribelle che, prima o poi, si dovrà riunire con il resto della Cina. Fino a trent'anni fa era un principio difeso anche dal governo di Taipei, che – al pari di quello di Pechino – si proclamava l’unico legittimo di tutta la Cina.

L’origine di questa situazione risale alla guerra civile che dopo la Seconda guerra mondiale vide vincitore l’esercito comunista di Mao Zedong, mentre le truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek ripararono nell’isola di Taiwan e lì costituirono il governo in esilio (ufficialmente Taiwan si chiama Repubblica di Cina). La questione ovviamente non poteva risolversi manu militari per cui si è rimasti in una situazione di stallo con la comunità internazionale che, solo a partire dagli anni ’70, ha riconosciuto come governo legittimo di tutta la Cina quello di Pechino (fino ad allora il seggio all’Onu era occupato dal governo di Taiwan).

Ma con il passare degli anni e soprattutto dalla fine degli anni ’80, con la democratizzazione di Taiwan che seguiva una fase di grande sviluppo economico, le strade delle due Cine si sono allontanate completamente. Nella realtà, ormai, a oltre 70 anni dalla separazione sono due paesi completamente diversi, con due sistemi culturali, politici ed economici sostanzialmente incompatibili. Parlare di “una sola Cina” è ridicolo. E l’estromissione di Taiwan dalla comunità internazionale – solo una manciata di paesi ha regolari relazioni diplomatiche, il più importante dei quali la Santa Sede – è ormai anacronistica, tenendo conto – solo per fare un esempio – anche di quanto l’industria di Taiwan sia fondamentale per l’economia globalizzata.

Per questo a Taiwan c’è ormai una forte spinta indipendentista – politicamente rappresentata dal Partito Progressista Democratico della attuale presidente Tsai Ing-wen –, anche se la parola indipendenza è tabù proprio per evitare che scatti un’immediata azione militare di Pechino. Negli anni si sono infatti studiate diverse formule per fare accettare l’autonomia di Taiwan evitando di usare la parola fatale.

Di conseguenza è una finzione anche la politica ufficiale degli Stati Uniti che, mentre si attengono ufficialmente al principio di “una sola Cina”, hanno però un trattato militare per la difesa di Taiwan, considerando perciò l’isola come una entità autonoma. È una contraddizione evidente che però permette di mantenere lo status quo, fornendo a Taiwan armamenti che possano scoraggiare la Cina popolare da pericolose avventure.
Ma ovviamente queste finzioni sono sempre più difficili da mantenere e rendono l’equilibrio molto precario, che qualsiasi mossa avventata può far saltare. E infatti l’iniziativa della Pelosi è andata a far esplodere la contraddizione della posizione Usa, ovvero fare una visita ufficiale a Taiwan, come se fosse indipendente, ma nello stesso tempo sostenere che è parte di “una sola Cina”.

Una situazione molto delicata dunque, che richiede massima responsabilità, soprattutto in un momento come questo di gravi tensioni internazionali e fronti di guerra già aperti tra superpotenze. Ben difficilmente si vorrà spingere questa crisi oltre l’esibizione dei muscoli, a meno di un qualche errore o mossa azzardata che faccia precipitare la situazione (un rischio che comunque andrebbe evitato), ma come qualcuno ha notato, il pericolo sta anche in questa escalation di dimostrazioni di forza da cui non si può tornare indietro, per non dare un messaggio di debolezza. E il limite si è ormai spostato a un punto molto pericoloso.

Come si diceva all’inizio ci sarebbe bisogno di pompieri, meglio: uomini di pace.