Crisi greca Separare le buone azioni dalle cattive
La crisi della Grecia, per quanto drammatica, deve servirci come un'opportunità provvidenziale. Ci permette, infatti, di capire quali siano le reali cause della depressione: politiche sociali interventiste, manipolazioni della moneta, crescita a debito. Sono le cattive azioni che vanno scartate.
Partiamo dai numeri: il tasso di disoccupazione in Grecia è al 25,4% (media area euro: 11,5%), il rapporto deficit/Pil al -12,2% (area euro: -2,9%), il rapporto debito/Pil al 174,9% (area euro: 90,9%). Oltre al quadro economico disastroso si segnalano forti tensioni finanziarie, legate all’instabilità politica: i tassi di rendimento dei titoli governativi greci a 3 anni sono balzati al 12% (triplicando negli ultimi 5 mesi), con lo spread rispetto al Bund tedesco decennale raddoppiato nell’ultimo semestre fino all’8,5% (per avere un termini di paragone in Italia è all’1,25%). Se l’area euro non gode mediamente di buona salute, la Grecia sta malissimo e senza aiuti esterni rischia nuovamente di implodere, come già nel 2010.
Iniziamo a parlare della "crisi greca" con una precisazione etimologica: ironia del destino, la parola "crisi" deriva proprio dal greco, dal linguaggio agricolo, e fa riferimento al processo con cui si separa il grano dalla pula. Cerchiamo quindi di "distinguere": la profonda crisi economica, finanziaria e socio-politica che attanaglia la Grecia dove affonda le proprie radici? La domanda è fondamentale, perché se vi sono pochi dubbi sulla gravità della situazione ellenica è altrettanto vero che per individuare possibili soluzioni per porvi rimedio, senza cadere vittima di abbagli ideologici, occorre capire la vera origine del male.
Se Atene piange, d’altronde, Sparta non ride: da oltre 6 anni i principali Paesi sviluppati del mondo - non solo la Grecia e gli altri Paesi c.d. "periferici" dell'area euro come l'Italia -, ma gli stessi Usa e, da prima ancora, il Giappone, si trovano avviluppati nella peggiore crisi finanziaria-economica-sociale del dopoguerra.
Dunque, di chi è la colpa? Che cosa sta accadendo? Le soluzioni fin qui prese da Governi e Banche Centrali vanno nella direzione giusta? Quanti anni ci andranno ancora prima di rivedere davvero la luce, al di là della propaganda? Vista la complessità del fenomeno bisognerebbe innanzitutto evitare risposte semplicistiche - del tipo "è tutta colpa dell'austerità tedesca" - oppure dietrologiche e complottistiche - del tipo "sono i poteri forti che vogliono affamare i Paesi più deboli" - oppure ridurre il tutto alla solita "speculazione finanziaria", al "fallimento del mercato", alla "camicia di forza" dell'euro, e così via.
Se la crisi è un fenomeno generale e complesso - seppur con ovvie e anche marcate differenze tra un Paese e l'altro - la prima osservazione logica è che deve esserci un minimo comune denominatore, valido per gli Usa come per il Giappone, per l'area euro nel suo insieme come per i suoi componenti più deboli - i Paesi “periferici”, al cui interno la Grecia riesce a distinguersi in negativo.
In estrema sintesi, i Paesi maturi hanno in comune: decenni di crescita a debito, un "capitalismo" clientelare alimentato da politiche Keynesiane e dal malaffare, un'ingerenza crescente dello Stato nella vita economica e sociale finanziata da un'oppressione fiscale che scoraggia risparmio ed investimenti, l'invecchiamento demografico e, negli ultimi anni, un interventismo crescente delle rispettive Banche Centrali - veri e propri bracci armati dei governi - che stanno sistematicamente "monetizzando il debito" con politiche di tassi di interesse prossimi allo zero con cui viene trasferita ricchezza dai creditori - per lo più le famiglie - ai debitori - per lo più gli Stati sovrani, scoraggiando il risparmio ed incoraggiando l'azzardo morale, dalle grandi Banche di investimento a Wall Street. La concentrazione della ricchezza cresce, la classe media evapora e la coesione sociale si allenta.
In questo quadro generale la Grecia si distingue perché "eccelle", per così dire, su tutti i fronti: un'economia cronica, statalistica e clientelare, una tendenza costante a vivere al di sopra dei propri mezzi che ha portato ad accumulare debiti ingenti ed insostenibili, mancanza di efficienza a tutti i livelli, in un contesto di vero e proprio suicidio demografico che funge da acceleratore di processi involutivi in essere da decenni. Per la cronaca, l’età mediana in Grecia è a 43 anni contro i 45 del Giappone, i 44 dell’Italia, i 41 della media dell’Unione europea ed i 37 degli Usa, mentre i paesi emergenti sono mediamente ben al di sotto dei 30 anni: se ne parla poco, ma tra le cause profonde della crisi vi è proprio la demografia.
Sfatiamo un mito: l'entrata del Paese nell'euro non è stata la causa della crisi ellenica - come non lo è della crisi italiana. Nel nostro caso, basti pensare che noi rischiammo un default del nostro debito pubblico nella prima metà degli anni '90 e fu proprio la discesa dei rendimenti legata all'ingresso nell'euro che ci aiutò a stabilizzare la situazione della finanza pubblica e anche oggi ci finanziamo a tassi bassissimi nonostante l'elevato e crescente rapporto debito/Pil proprio grazie all'euro. È la Grecia finora ha ricevuto dall'area euro sicuramente molto di più di quanto ha dato in cambio.
L'impossibilità di manipolare il tasso di cambio ha tolto - alla Grecia come all'Italia - la possibilità di seguire la scorciatoia delle svalutazioni competitive, che in realtà non risolvono mai i problemi alla radice - che nascono sempre da mancanza di produttività - rinviandoli, accresciuti, alle generazioni future. Negli ultimi anni i nodi sono quindi venuti al pettine ed il male non consiste in questo ma nel fatto che il problema non sia emerso già molto tempo fa: la cura sarebbe stata più facile.
Non potendo più indebitarsi o svalutare - in un quadro demografico che rischia di portare al collasso il sistema sanitario e pensionistico - occorrerà trovare soluzioni "reali" in tempi brevi e nel peggiore momento possibile, in anni di vacche molto magre. A partire dalla riduzione del perimetro dello Stato, della spesa pubblica e della pressione fiscale, dall'incentivazione del risparmio e dell'investimento, all'interno del recupero delle virtù - parola desueta ma fondamentale - della laboriosità, dell'austerità, del risparmio, dell'imprenditorialità.
Purtroppo invertire tendenza in tempi brevi è difficile e doloroso, ma l'assenza di scorciatoie percorribili potrebbe finalmente costringere a fare scelte giuste, in Grecia come in Italia. Ma ciò è possibile solo se si riconoscono gli errori compiuti, senza cercare facili capri espiatori e scaricare le proprie colpe sugli altri, che sia la Germania della Merkel, l'euro o la Troika.
Sui gravi limiti della costruzione europea ci sarebbe certo molto da dire: dallo spirito tecnocratico e centralista delle sue élites all'ideologia illuminista che rinnega la tradizione cristiana che ha forgiato l’Europa rendendola un “continente” e non solo una penisola asiatica, dalle manipolazioni monetarie della Banca Centrale Europea alle scelte di politica economica. Tutto vero, ma le classi dirigenti greche ed italiane non sembrano migliori.
Rimane poi il fatto che i problemi che sono venuti a galla negli ultimi anni sono presenti, mutatis mutandis, anche negli Usa ed in Giappone, mentre in Europa affondano le proprie radici nei decenni precedenti alla costruzione dell'Unione monetaria europea e quindi non possono dipendere principalmente da questa. Affermare il contrario rifletterebbe un populismo demagogico utile per prendere voti alle elezioni sfruttando il malcontento popolare - come si appresta a fare la lista della sinistra radicale di Alexis Tsipras, Syriza, nelle elezioni del prossimo 25 gennaio in Grecia, dove risulta in testa ai sondaggi - ma non servirebbe a cambiare in meglio la situazione.
È difficile azzardare ipotesi sull'evoluzione della crisi greca all'interno della più ampia crisi dell'area euro - dentro, a sua volta, ad una crisi, come abbiamo visto, di portata mondiale. È probabile che, pur di evitare il pericoloso precedente di un Paese che esce dall’euro la Troika si dimostrerà benevola con Tsipras, che a sua volta sarà costretto ad accettare, almeno a parole, di proseguire con i “piani di austerità”. In altri termini si continuerà con la politica del “comprare tempo”, sperando che il tempo sia poi utilizzato per fare qualcosa di concreto.
Che la Grecia rimanga o meno nell'euro - e che l'area euro sopravviva o meno - non cambierebbe comunque il quadro di fondo. Il punto fermo è che il fallimento delle politiche Keynesiane ha portato i principali Paesi occidentali - preceduti da diversi anni dal Giappone - in vere e proprie "trappole del debito", rese ancora più ingestibili dall'invecchiamento demografico, e ciò peserà purtroppo per molti anni ancora sulle prospettive di crescita.
Dalla crisi, quindi, si uscirà davvero – in Grecia come altrove – solo recuperando le virtù della laboriosità e del risparmio, la capacità di investire e di far salire la produttività, liberando il mercato dalle ingerenze politiche e dall'oppressione fiscale e dalle illusioni di creare ricchezza con interventi della mano pubblica e con le manipolazioni monetarie delle Banche Centrali, in un contesto finalmente favorevole per fare impresa e mettere su famiglia. L'alternativa è un continuo declino, scenari di deindustrializzazione e di precariato in crescita, di insostenibilità del Welfare State e della coesione sociale, e non solo in Grecia. Delle pre-condizioni necessarie per rilanciare davvero l'economia e la società, in Grecia come in Italia, nell’agenda politica al momento, purtroppo, sembra non esservene neppure una.
Eppure que servirci, etimologicamente e provvidenzialmente, per distinguere, separare i comportamenti buoni da quelli errati, tornare al punto in cui abbiamo preso la strada sbagliata e quindi "convertirci", prendendo finalmente la strada giusta. L'ideogramma cinese con cui si indica il concetto di "crisi" ha anche una valenza positiva, di "opportunità": ai greci, come a noi italiani, la grazia di non sprecare questa difficile occasione storica in sterili lamentazioni vittimistiche, per consegnare ai nostri figli un Paese migliore, più libero e florido.