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PRISMA

Crisi greca, occorre pensare a lungo termine

Il salvataggio immediato dalla bancarotta dà un risultato sul breve termine, ma alla lunga aggraverà
la crisi e vi trascinerà altri Paesi.

Attualità 11_07_2011
Grecia

 

Dei circa 485 miliardi di dollari in titoli di Stato greci oggi a rischio di insolvenza, 56,7 sono in mano di investitori pubblici e privati tedeschi e 33,9 di investitori pubblici e privati francesi; altri Paesi seguono con molta distanza mentre gli analoghi titoli in mano italiana sono relativamente poca cosa, ovvero soltanto circa 4 miliardi di dollari. Questo spiega perché la Germania del cancelliere Angela Merkel e la Francia del presidente Sarkozy non abbiano esitato a lanciare un loro piano congiunto di salvataggio della Grecia dalla bancarotta scavalcando senza batter ciglio sia le proprie precedenti divergenze sia la Banca centrale europea, ovvero l’istituzione che nell’ambito dell’Ue avrebbe per statuto competenza in materia.

Di fronte al rischio della bancarotta di uno Stato, le grandi leve che si possono tirare sono due: da un lato quella della “ristrutturazione” del debito, ossia della dilazione concordata del suo pagamento, e dall’altro quella delle riforme di struttura volte a incidere sulle cause per cui il Paese in questione si è indebitato oltre misura. I costi della prima sono economici, e soprattutto a carico dei Paesi creditori, mentre i costi della seconda sono  politici e soprattutto a carico del Paese debitore. Anche in questo caso - temendo che tale costo politico possa divenire insostenibile - si sta mirando ancora a tirare più la leva della ristrutturazione che quella delle riforme di struttura; ovvero si cerca a risolvere il problema a breve termine creando così le condizioni che porteranno a lungo termine a un suo aggravamento. 

La Grecia è un piccolo Paese di poco più di 11 milioni di abitanti con una produzione interna lorda più o meno pari a quella di una media provincia del nostro Nordest. Può anche darsi che così ce la si possa cavare pure questa volta. Altri tre membri dell’Unione Europea sono però in fila verso la medesima pericolosa china: uno l’Irlanda, ha meno di 5 milioni di abitanti ma una produzione in valore assoluto più elevata di quella greca; un altro, il Portogallo, demograficamente vale più o meno quanto la Grecia ma è il più povero tra i membri occidentali dell’Unione Europea; il terzo però è la Spagna, che ha oltre 46 milioni di abitanti e un reddito pro capite annuo di quasi 23 mila euro. Se anche la Spagna dovesse vacillare allora anche le soluzioni di breve respiro diventerebbero molto difficili.

E’ invece il caso di sottolineare che di per sé il debito pubblico del nostro Paese non è affatto in bilico, malgrado l’accento che la stampa ostile all’attuale governo sta ponendo sugli avvisi e i preavvisi riguardo all’Italia delle agenzie internazionali di classificazione (rating) della solvibilità dei vari Stati.  In proposito c’è tra l’altro da notare un dettaglio che la dice lunga sulla buona fede di queste grida di allarme. “L’agenzia di rating Usa ora minaccia di abbassare il voto sul nostro debito pubblico / Moody’s avverte l’Italia”: con questo titolo si apre oggi 18 giugno, mentre scriviamo, la prima pagina del Corriere della Sera. Come dire insomma: “Con il governo che abbiamo ecco che cosa ci sta capitando!”. Poi però a pag.3 dello stesso giornale si legge tra l’altro la seguente notizia, che nessun titolo evidenzia: “ (…) Moody’s motiva la propria decisione di valutare se declassare il rating sul debito italiano anche con la bocciatura della gestione privata dell’acqua arrivata col referendum, che proverebbe la difficoltà di fare le riforme”. Dunque è esattamente il contrario: ciò che allarma i mercati internazionali non sono tanto le sconfitte di Berlusconi quanto le vittorie di Di Pietro.

Se però ci si volge, come di dovere, alla questione nei suoi termini più complessivi, allora non sta male solo la Grecia, ma stiamo male tutti. Entrambe le aree-chiave dell’economia mondiale, ossia gli Stati Uniti e l’Unione Europea, stanno camminando a passo spedito verso una futura bancarotta generale degli Stati sovrani. Tra il 2007 e il 2010, ovvero in soli tre anni, negli Stati Uniti il rapporto tra debito e prodotto nazionale lordo è passato dal 60 al 90 per cento; e nell’area dell’euro nello stesso periodo dal 65 all’80 per cento. Stando così le cose sarebbe meglio, anche se è molto più difficile politicamente, soccorrere i greci con programmi di aiuto alla mitigazione delle conseguenze sociali dello sconquasso, ma non salvare lo Stato greco dalla sua bancarotta imminente. Ogni salvataggio di genere infatti è il seme di altre crisi analoghe, che diventeranno via via sempre più gravi fino a quando l’intero sistema non sarà più in grado di sostenerle.