LA SCOMPARSA
Così Zanzotto bussava alle porte del Paradiso
La morte del poeta trevigiano, un uomo fortemente ancorato alle sue radici che percepiva l'aridità di una società in preda al relativismo.
Cultura
19_10_2011
Si è spento Andrea Zanzotto, un poeta unico nel panorama letterario italiano novecentesco. Non appartiene, infatti, alla schiera dei tanti poeti autodidatti (cioè, per intenderci, come Saba e Quasimodo), neppure alla teoria degli intellettuali organici al potere e ai partiti, né tanto meno al gruppo di scrittori che ancora aspiravano al ruolo di poeta vate o che, al contrario, intendevano destrutturare la poesia destituendola delle sue prerogative e della sua importanza.
È un uomo che ha amato la sua terra, rimanendo quasi per tutta la vita ancorato alle sue radici, Pieve di Soligo nel trevigiano (a parte una parentesi in Francia e in Svizzera nel Secondo dopoguerra), dove era nato nel 1921. Una laurea in Lettere a soli ventuno anni, poi l’insegnamento, l’attività di critico letterario su riviste e a trent’anni l’esordio poetico con la raccolta Dietro il paesaggio. In seguito escono tante altre sillogi: Vocativo (1957), IX Ecloghe (1962), La beltà (1968), Pasque (1973), Filò (1976), Il Galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983), Idioma (1986), Meteo (1996), Sovrimprensioni (2001) fino ad arrivare a Conglomerati (2009) che raccoglie poesie composte tra il 2000 e il 2009. L’attraversamento dell’Ermetismo negli anni giovanili caratterizza la sua prima raccolta (Dietro il paesaggio). Se forte è l’attaccamento alla sua terra, al paesaggio, radicato è il desiderio, per usare le sue parole, di «lodare la realtà, di lodare il mondo in quanto esiste».
La ragione del suo far poesia continua ad essere questa relazione con la realtà nella raccolta IX Ecloghe, anche se parzialmente la poesia sembra risentire del clima letterario che si è creato in Italia dopo l’uscita dell’antologia Novissimi nel 1961. In realtà, solo in apparenza, la sua poesia richiama quella dei poeti che avrebbero costituito di lì a poco la neoavanguardia del Gruppo ’63 (Sanguineti, Balestrini, Pagliarani). Questi, infatti, destrutturando il linguaggio colpiscono ad un tempo la lingua e la poesia della tradizione letteraria aprendo le porte alla «letteratura del rifiuto» e al conseguente «rifiuto della letteratura» nel clima del ’68 in cui tutto si riduce al far politica e la stessa letteratura vale nella prospettiva in cui coopera al ribaltamento del sistema borghese e dello status quo culturale. Zanzotto parte da una posizione differente e critica apertamente il Gruppo ‘63. Se da un lato si distacca dalla tradizione aulica e illustre e dal linguaggio della norma, dall’altro mira a trovare un senso nella realtà.
Assai significativa in questa prospettiva è l’«Ecloga IX». Evidente è il richiamo alle Bucoliche virgiliane. Qui i personaggi sono indicati con le lettere a (forse una maestra) e b (il poeta?). Il tema è l’educazione. Il personaggio b ad un certo punto afferma: «Io forse insegno a tollerare, a chiedere/ ciò che illumina/ più nel chiederlo che nella risposta». La maestra insegna a chiedere, perché nella vita non si può trovare una risposta adeguata, quando non si pone correttamente la domanda o non si domanda affatto. Bellissima è anche la replica di a: «Tu forse insegni perché una risposta/ hai generato in te». L’espressione di Zanzotto non vuole distruggere il significato, vuole al contrario ricostruire dalle fondamenta, andare all’essenza delle cose per trovare ciò che davvero conta. Ecco perché b invita l’interlocutore, che appare dubbioso e incerto, ad ascoltare e a guardare per riconoscere l’evidenza delle cose e della realtà: «Riudrai le voci del profondo autunno,/ del magistero, del pozzo profondo,/ se sapesti udirle nel primo/ giorno, se sapesti che primo/ è ogni giorno. Non essere stanco/ di durare tra le albe, esse faranno verità della nostra menzogna». E a questo punto il personaggio b richiama la figura del padre: «Come a lui che insegnava/ agli operai quanto sia nitido/ il segno sul foglio ed il taglio nel legno;/ vale ogni segno, ogni taglio, estinzione/ del troppo e del vano, ombra aggredita./ A lui, tuo padre».
Zanzotto scrive in anni in cui la cultura sta distruggendo la figura paterna, la tradizione, l’eredità del passato, la stessa possibilità di insegnamento e di educazione. Che cosa si può insegnare se nulla di quanto è stato espresso nel passato nei diversi campi davvero vale, perché è antiquato e non più moderno? Zanzotto sembra individuare la via di uscita da questo «labirinto» (per usare un’espressione cara a Calvino), da questa domanda irrisolta: la realtà, la vera grande educatrice, e l’io in ascolto. Lo sperimentalismo di Zanzotto è, forse, ancor più evidente nella raccolta Beltà (1968), in cui si avvertono segni della disgregazione linguistica tipica del Gruppo ’63 e il linguaggio diventa, talvolta, una mescidanza di aulico (perfino il latino) ed infantile. Nella poesia «Il mondo» si avverte il clima culturale di dubbio e di relativismo che caratterizza l’epoca contemporanea: «Io pensavo che il mondo così concepito/ con questo super-cadere super-morire/ il mondo così fatturato/ fosse solo un io male sbozzolato/ fossi io indigesto male fantasticante/ […] e non tu, bello, non “tu” santo e “santificato”/ un po’ più in là, da lato, da lato». Per tanta filosofia contemporanea la realtà è un prodotto della nostra immaginazione e del nostro pensiero, i fatti sono solo un’interpretazione degli stessi, un’opinione. Ma l’io del poeta non può ridursi a pensare così, non può essere soddisfatto di un non senso.
Così i toni diventano di supplica, quasi di preghiera: «Fa’ di (ex-de-ob etc.) - sistere/ […] fa’ buonamente un po’; il congegno abbia gioco. Su, bello, su. // Su Münchhausen». Nei decenni successivi, negli anni Settanta e Ottanta, Zanzotto prosegue la sua ricerca di un’autenticità espressiva e il suo percorso approda all’uso frequente del dialetto. Ci piace concludere questo omaggio a Zanzotto proprio con una poesia scritta in dialetto, appartenente alla raccolta Idioma (1986), dedicata ad una vecchia cucitrice scomparsa, Maria Carpel, in cui il poeta sembra invocare, quasi pregare il Padre eterno di creare il Paradiso per quella donnina appena morta: «Si no ‘l te fèsse ‘n paradiso/ aposta par ti […], la saràe da méter a l’inferno/ tuta, tuta quanta «la realtà»,/ si par ti no la fèsse ‘n paradiso/ pien de bontà come la to bontà, gnantaltro che ‘l paradiso/ come che ti tu l’à pensà». Tradotto suona così: «Se non ti facesse un Paradiso/ apposta per te […] sarebbe da mettere all’Inferno/ tutta, tutta quanta la realtà,/ se per te non facesse un Paradiso/ pieno di bontà come la tua bontà,/ niente altro che il Paradiso/ come tu l’hai pensato».