Così Paolo VI affrontò e vinse la "modernità inquieta"
Da almeno due secoli il rapporto fra Chiesa e modernità è al centro delle riflessioni del Magistero. I risultati di questa riflessione sono stati riassunti da Benedetto XVI nel suo celebre discorso del 12 maggio 2010 a Lisbona. Ma anche Paolo VI affrontò il tema: lo ricordiamo in occasione della sua beatificazione.
Questo il testo dell'ntervento di Massimo Intriovigne alla convocazione dei gruppi e delle comunità del Rinnovamento nello Spirito della Lombardia a Montichiari (Brescia) per la beatificazione di Paolo VI.
Da almeno due secoli il rapporto fra Chiesa e modernità è al centro delle riflessioni del Magistero pontificio. I risultati cui questa riflessione è pervenuta sono stati riassunti da Benedetto XVI nel suo discorso del 12 maggio 2010 a Lisbona al mondo della cultura, uno dei più importanti del suo pontificato. Come spesso avviene negli interventi di Benedetto XVI, il punto di partenza è il Concilio Ecumenico Vaticano II, «nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita».
Benedetto XVI invita dunque a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte in parte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le «istanze» di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma «superandole» –, e gli «errori e vicoli senza uscita» in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole e di condivisibile. Della modernità occorre dunque assumere le domande, discernendo invece criticamente le risposte. Da questo testo emerge pure come il Magistero della Chiesa abbia dovuto prendere le distanze sia da un atteggiamento ultraconservatore, che rifiuta di assumere le domande della modernità – Benedetto XVI lo chiamava «anticonciliarista», con riferimento al rifiuto del Vaticano II – sia da un atteggiamento che lo stesso Papa Ratzinger chiamava «progressista», intendendo con questo termine l’accettazione acritica e ingenuamente entusiasta delle risposte della modernità e non solo delle domande.
Il beato Paolo VI nel corso della sua vita, poi del suo pontificato, si trovò ad affrontare questi due atteggiamenti. Dapprima credette – da sacerdote, da cardinale e per qualche anno anche da Pontefice – che l’ostacolo maggiore per la Chiesa venisse da coloro che Benedetto XVI avrebbe chiamato «anticonciliaristi», cioè da un pregiudizio ultraconservatore che si rifiutava d’incontrare l’uomo moderno e farsi carico delle sue domande. Di qui un’asprezza di rapporti, per esempio, con i cosiddetti «tradizionalisti» – più correttamente, «anticonciliaristi» – legati a mons. Marcel Lefebvre, di cui il beato Paolo VI vide per tempo, e prima di altri, i rischi di un comportamento scismatico, forse però senza considerare – in un contesto dove riteneva suo primo dovere difendere il Concilio – che, per quanto le loro risposte potessero essere a loro volta sbagliate, alcune loro domande nascevano da preoccupazioni legittime e giustificate. Nella seconda fase del suo pontificato, il beato Paolo VI si rese conto che – per quanto i rischi insiti nella deriva anticonciliarista non andassero sottovalutati – la minaccia maggiore veniva dalle frange ribelli a Roma del mondo progressista. Un punto di svolta fu la rivolta, inaudita e senza precedenti per estensione e intensità, contro la sua enciclica Humanae vitae del 1968, il «Sessantotto della Chiesa», che indusse il beato alla straordinaria decisione di non scrivere più encicliche, producendo fino alla sua morte nel 1978 un «decennio senza encicliche» inedito nella storia contemporanea del Magistero.
Nel 1968 il beato Paolo VI usò la formula famosa e drammatica della «autodemolizione» della Chiesa, «come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio». Nel 1972 avrebbe aggiunto: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di buio, di ricerca, di incertezza». Ne attribuiva la responsabilità al Diavolo, la cui opera che mira a creare divisioni nella Chiesa ci è stata ricordata tante volte da Papa Francesco: «da qualche fessura – affermava il beato Paolo VI – è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». Possiamo riassumere l’accostamento del beato Paolo VI alla modernità, che ispira tutto il Magistero dei Papi successivi, in quattro punti.
1. Fede e ragione. Il beato credeva appassionatamente nella possibilità di un incontro tra fede e ragione, anche fra la fede e la declinazione moderna della ragione nel pensiero e nella scienza. Tra tanti testi, è impressionante il Messaggio agli uomini di pensiero e di scienza dell’8 dicembre 1965, in cui – dopo avere celebrato la ragione e il suo ruolo indispensabile – aggiungeva: «Ma non dimenticatelo: se il pensare è una grande cosa, pensare è innanzitutto un dovere; guai a chi chiude volontariamente gli occhi alla luce! Pensare è anche una responsabilità: guai a coloro che oscurano lo spirito con i mille artifici che lo deprimono, l’inorgogliscono, l’ingannano, lo deformano! Qual è il principio di base per uomini di scienza, se non sforzarsi di pensare giustamente? Per questo, senza turbare i vostri passi, senza accecare i vostri sguardi, noi vogliamo offrirvi la luce della nostra lampada misteriosa: la fede». Come avrebbe detto san Giovanni Paolo II, fede e ragione sono le due ali che permettono all’uomo di volare.
2. La giusta ermeneutica per il Concilio. La formula «ermeneutica della riforma nella continuità», che chiede di accettare lealmente gli elementi di riforma del Concilio, leggendoli però in continuità e non «contro» il Magistero precedente, è stata coniata da Benedetto XVI. Ma la nozione si trova già nel beato Paolo VI. In un famoso discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del 23 giugno 1972, il beato denuncia «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto». L’interpretazione «falsa e abusiva» del Concilio non ha di mira nulla di meno, secondo Paolo VI, che una «dissoluzione del magistero ecclesiastico […] prescindendo dalla dottrina, sancita dalle definizioni pontificie e conciliari. Non si può non vedere che tale situazione produce effetti assai penosi e, purtroppo, pericolosi per la Chiesa».
Nello stesso discorso il Pontefice cita come esempio di questa «rottura», con evidente riferimento alla teologia della liberazione d’ispirazione marxista, il caso di «alcuni, poi, [che] giungono a subire e a predicare il fascino della violenza, nuovo mito che si affaccia alla inquieta coscienza moderna: esso è l’apologia del fatto compiuto, della “liberazione” che non sempre è interpretazione della libertà evangelica [...], ma spesso è eufemismo che copre metodi eversivi; questo fascino inoltre avalla talora il mimetismo delle sociologie a-cristiane, reputate le sole efficaci, con cieca fiducia e senza antiveggenza delle conclusioni a cui conducono; esso non resiste alla seduzione del socialismo». Come mostra il già citato «caso Lefebvre», il beato era capace di asprezze verso chi invocava la continuità per rifiutare la riforma. Ma denunciava anche con chiarezza chi voleva la riforma senza la continuità.
3. Centralità della questione bioetica. Il 5 marzo 2014, nell’intervista che ha rilasciato a Ferruccio de Bortoli per il Corriere della Sera, a una domanda se non fosse venuto il momento di mandare in pensione l’enciclica Humanae vitae, Papa Francesco ha risposto che, al contrario, «la genialità [di quell’enciclica] fu profetica: ebbe il coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina morale, di esercitare un freno culturale, di opporsi al neo-malthusianesimo presente e futuro». L’enciclica fu ridotta allora, e continua a essere ridotta oggi, a un mero no alla pillola anticoncezionale. Molti sanno che esiste, quasi nessuno la legge. Leggendola, si scopre che si tratta di una lucida e mirabile denuncia di un’ideologia anticristiana e anti-umana che propone la dittatura del relativismo morale – come avrebbe detto Benedetto XVI, con un’espressione ripresa anche da Papa Francesco nel suo primo discorso al Corpo Diplomatico, del 22 marzo 2013 – e attacca direttamente l’uomo.
Il beato Paolo VI non poteva prevedere tutti gli orrori di oggi, dall’utero in affitto alla fecondazione eterologa e alle scuole trasformate in «campi di rieducazione» per l’ideologia del genere, secondo un’espressione del cardinale Angelo Bagnasco ripresa da Papa Francesco in un discorso dell’11 aprile 2014 all’Ufficio Internazionale Cattolico per l’Infanzia e messa in relazione agli «orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX» e che si ripresentano sotto forma di «pensiero unico». L’Humanae vitae scopriva e smascherava già nel 1968 il principio che presiede a tutte le forme del «pensiero unico» contro la vita e la famiglia: l’idea secondo cui non è la morale a dirci quali desideri sono giusti e sbagliati ma è il desiderio a creare e reinventare continuamente la morale, non importa se calpestando altre persone e altri diritti, a cominciare da quelli dei più poveri perché più indifesi, i bambini uccisi con l’«abominevole delitto» dell’aborto, come lo chiama il Concilio Ecumenico Vaticano II.
4. Nuova evangelizzazione. Il 22 giugno 2013 Papa Francesco ha ricevuto in udienza i pellegrini della Diocesi di Brescia, venuti a Roma per celebrare il cinquantenario dell’elezione pontificia del loro conterraneo, il beato Paolo VI. Il discorso è stato occasione per richiamare l’attenzione sull’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975, definito da Francesco il più grande documento del Magistero di tutti i tempi sulla pastorale, e che gli storici riconoscono come fonte e origine della nozione di «nuova evangelizzazione» poi sviluppata da san Giovanni Paolo II. Qui il beato Paolo VI riconosceva il dramma della modernità – non l’avere sviluppato e celebrato la ragione, che sarebbe stata cosa buona, ma l’avere usato la ragione per escludere ed emarginare la fede – e insieme offriva la soluzione positiva: rievangelizzare, anche i Paesi di antica tradizione cristiana dove forse la fede non c’è più. Lo avrebbe detto, ancora, Benedetto XVI, nell’omelia della Messa celebrata a Lisbona l’11 maggio 2010: ««Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista».
Per la nuova evangelizzazione, anche qui anticipando un tema caro a Benedetto XVI e ripreso da Papa Francesco nella Evangelii gaudium, il beato Paolo VI voleva che si avvicinassero gli uomini e le donne del nostro tempo anche tramite la via pulchritudinis, la via del bello e dell’arte, senza escludere un dialogo – naturalmente, mai separato da un discernimento – con l’arte moderna, come mostrano non solo i testi di Papa Montini ma gli incontri con artisti e le raccolte artistiche da lui volute e promosse.
La bussola che guidò il beato Paolo VI nel suo discernimento della modernità era l’amore per l’uomo: non però un amore meramente umanitario o, come direbbe Papa Francesco, da Ong, ma un amore che viene da Gesù Cristo. L’amore dell’uomo del beato, ha ricordato lo stesso Papa Francesco ai pellegrini di Brescia il 22 giugno 2013, era «legato a Cristo: è la stessa passione di Dio che ci spinge ad incontrare l’uomo, a rispettarlo, a riconoscerlo, a servirlo». Nell’ultima sessione del Vaticano II, il 7 dicembre 1965, Papa Montini pronunciò un discorso molto noto, che Francesco in quell’occasione ha citato: «L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella sua terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto?
Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere, ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani… Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo». Sbaglierebbe, secondo Papa Francesco, chi interpretasse queste parole come cedimento all’umanesimo moderno che fa a meno di Dio. I cristiani sono «cultori dell’uomo» non in nome di una prospettiva umanitarista o assistenziale ma in nome di Dio. Questo, ha detto Francesco, va riaffermato «anche oggi, in questo mondo dove si nega l’uomo, dove si preferisce andare sulla strada dello gnosticismo […] – un Dio che non si è fatto carne –, o del “niente Dio” – l’uomo prometeico che può andare avanti [da solo] –. Noi in questo tempo possiamo dire le stesse cose di Paolo VI: la Chiesa è l’ancella dell’uomo, la Chiesa crede in Cristo che è venuto nella carne e perciò serve l’uomo, ama l’uomo, crede nell’uomo». In verità solo con una profonda fedeltà all’insegnamento di Gesù Cristo la Chiesa può compiere la sua opera di discernimento della modernità e portare il suo amore agli uomini e alle donne del nostro tempo. È questa la lezione del beato Paolo VI per il nostro secolo.