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PIRANDELLO. GENIO DEL NOVECENTO/ 9

Così l’utopia del mondo perfetto muore nella violenza

Nell’opera teatrale La nuova colonia Pirandello ci racconta le conseguenze nefaste dell’utopia socio – politica di costruire un mondo «buono e giusto». Il tentativo è destinato a fallire e a generare altra violenza. Il testo teatrale appartiene alla “trilogia del mito” (LazzaroLa nuova coloniaI giganti della montagna).

Cultura 28_12_2014
Pirandello dirige Marta Abba e Lamberto Picasso ne La nuova colonia, 1928.

Nell’opera teatrale La nuova colonia Pirandello ci racconta in modo paradigmatico le conseguenze nefaste dell’utopia socio – politica di costruire ex-novo un mondo «buono e giusto». Il testo teatrale appartiene alla “trilogia del mito” (Lazzaro, La nuova colonia, I giganti della montagna), tre opere in cui il drammaturgo negli ultimi anni della sua vita (dal 1928 al 1936) cerca di individuare alcune verità, di fissare alcuni punti di riferimento nell’ambito sociale, religioso e artistico.

Alcuni diseredati, desiderosi di sfuggire al sistema iniquo della società, in cui prevaricazioni, sfruttamento, subordinazioni, potere ed egoismi dominano i rapporti personali, decidono di trasferirsi su di un’isola vulcanica deserta, sicuri che, in una palingenesi, ripartendo dall’origine, lontani dalla civiltà e dal progresso, in uno stato di natura primigenio, si possa costruire un mondo equo e perfetto. Capo di questi uomini è Currao. Al suo fianco compare La Spera, prostituta che nella maternità ha riscoperto la propria dignità e la propria femminilità. Tutti partono col desiderio di vita nuova e di una fratellanza che non hanno trovato nella città di origine. Leggiamo questo dialogo:

«Papìa: … Ci sto anch’io! Ho sete anch’io di vita nuova! ….

Currao: Finiamola con le liti!  ….

Quanterba: Si va tutti all’isola!

Fillico e trentuno: All’isola! All’isola!  …

Osso di Seppia: O a fondo o resuscitati!  …

Il riccio (ironico): Tutti fratelli! – Dai! Dai!....

La Spera: Vado a prendere il mio bambino.

Ciminudù: Ma no, che fai? Non l’hai a balia?

La Spera: Vuoi che lo lasci qua? Lo porto via con me!».

 

È da un desiderio buono che inizia l’avventura di questi uomini disperati, che nella vita hanno conosciuto solo miseria e disperazione. Nel contempo, il germe della distruzione è già presente fin dall’origine, fin dalla partenza, in quanto i protagonisti partono da un’idea che hanno in testa e che è dimentica della realtà dei fatti, della vera natura dell’uomo, della sua potenzialità di male, degli abissi di orrore e di distruzione di cui l’uomo è capace. Quando l’uomo si dimentica della sua natura, anche i propositi più buoni si tramutano in violenza e abisso di morte per imporre quell’ordine buono di cui l’uomo da solo non è capace.  È qui incarnata quell’utopia sociale dimentica che il male non viene dal di fuori, dalla società, ma dal di dentro, cioè dal cuore dell’uomo.

Sono parole che, del resto, già la grande scuola di umanità che è il Vangelo ci ha insegnato: «Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a  finire nella fogna?... Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Marco, 7, 18-22). Dopo poco tempo, tutto si ricostituisce come prima. C’è chi vuole imporsi con la forza. C’è chi vuole arricchirsi rubando o saccheggiando tra le rovine. C’è chi si rende subito conto che sull’isola, nel nuovo mondo, nulla è cambiato, e chi, invece, si illude che altrove, su questa terra, l’animo dell’uomo possa essere diverso, immune dal male. È questo il caso di La Spera, colei che sembra la redenta per eccellenza dal nuovo inizio e che, non a caso, è presentata spesso in maniera statuaria come fosse un gruppo scultoreo di una donna col bambino, appunto una nuova Eva, quindi una Madonna.

Gli intenti di comando e di potere vengono ammantati di buone intenzioni e presentati sotto il falso nome della carità. È l’emblema dell’uomo che vuole mostrarsi agli altri buono, che non si pone più il problema della felicità, ma vuole fare la guida, fare il capo, il moralizzatore. Questi diseredati che erano partiti per non stare più sotto la legge, si ritrovano ora sotto l’arbitrio di ciascuno o soggiogati dalla «ragione del più forte». Dopo un po’ di tempo sbarcano sull’isola altri uomini che portano con sé tante donne. La scena è assai emblematica e allusiva. L’arrivo di così tante donne segnerà un cambiamento anche nel modo in cui gli abitanti dell’isola si rapportano con La Spera, la redenta dal viaggio e dalla maternità. Trattata in un primo tempo con rispetto, quasi come simbolo della nuova vita e del nuovo corso, ritorna ora ad essere considerata la donna di tutti. La figura richiama, così, il primo peccato, il peccato originale e non a caso, quasi a voler sottolineare l’acquisita consapevolezza dell’impossibilità di un nuovo Eden! Si presti, infatti, attenzione a questa scena:

    

«Osso di seppia: L’hai indovinata, furbacchione, a portarci le donne!

Burrania: Appena le abbiamo viste sulle paranze!

Crocco: Eh, lo sapevo! - Ma persuaderli - padri e fratelli e mariti - a portarle (rivolgendosi a Papia) non è stato mica facile, sai? È che ho dipinto a tutti quest’isola come il paradiso terrestre.

Osso di seppia: - sì, dopo il peccato originale! -» . 

 

L’Eden riconquistato si mostra per quello che è, il Paradiso che è stato perduto per sempre. Nuovi sistemi di forza sono imposti, un nuovo ordine è stato stabilito. Anche nel nuovo mondo non si può sradicare il male. La remissione dei peccati è, infatti, un grande miracolo e non è dell’uomo. Nell’incontro con Padron Nocio, Currao lo accusa di aver portato sull’isola tutti i vizi della città, le donne e il denaro («Il bene, padron Nocio, è difficile a farsi; è troppo facile il male»). Il proposito di rifondazione generale della società può degenerare in una violenza inaudita. In maniera simbolica l’isola rischia addirittura di sprofondare per i canti, i balli e i tripudi dei nuovi arrivati. Fuori di metafora, l’umanità, dimentica del peccato originale e non realista, è a rischio di autodistruzione.

Il terzo e ultimo atto  si apre con i preparativi di una grande festa: sembra lo scenario biblico che precede il diluvio universale. Si allestiscono i festeggiamenti per la celebrazione di finti matrimoni. La Spera è disprezzata e reietta come all’inizio dell’opera. Alcuni marinai confabulano tra loro con l’intento di ritornare a terra, perché sull’isola «non c’è più né Dio, né legge». Il nuovo mondo, l’utopia sociale, si rivela per quello che è davvero, un luogo fuori dal mondo, l’Inferno in terra: è il mondo creato dall’uomo che ha eliminato Dio e si è eletto guida e capo e Dio stesso («Fuori del mondo, dicono! E così è davvero! Mi par d’essere all’inferno»).

Alla fine Currao abbandona La Spera e viene accusato di voler diventare padrone di tutto. Si assiste ad un corteo con finti sposi, tra musiche e balli in cui nessuno riesce a godere del divertimento che si aspettava. Su istigazione, La Spera accusa Currao di voler uccidere Dorò. L’opera si conclude con i violenti litigi finali che vengono sommersi dal terremoto che ingoia l’isola. Solo spunta fuori dal mare uno scoglio su cui ha trovato la salvezza La Spera con il figlio. La nuova colonia è il paradigma delle ideologie che hanno imperversato nel secolo scorso, più in generale di tutte le ideologie che hanno pensato di progettare una risposta al problema umano, non partendo da uno sguardo realista sulla natura umana, ma da un’idea, da un sistema costruito a tavolino.