Così il governo ha scelto di gestire il Covid senza curarlo
Il vaccino è l'unico orizzonte del governo, che da subito ha affrontato la pandemia senza agevolare la cura a casa del Covid. Una linea fatalista, che si riscontra nei verbali del Cts, nei quali le cure precoci e il ruolo dei medici di base sono stati costantemente ignorati e minimizzati. I lockdown depressivi e l'intasamento degli ospedali con record di morti sono il frutto di questo indirizzo.
Il vaccino è ormai la parola d'ordine, l'unico obiettivo portato avanti dal governo, ma non ci si è interrogati abbastanza sul fatto che l’Italia ha il più alto tasso di decessi da covid. Morire di covid è diventata un fatalistico peso da sopportare in attesa che il vaccino faccia il miracol e ci liberi dalla pandemia. Ma mentre tutto ruota attorno a come preservarci dal covid, non si sente parlare mai di come curarlo.
E' uno degli effetti collaterali possibili se non ci si dà come obiettivo quello di trovare le cure per una malattia, ma si sceglie di arginarla finendo così per acchiappare le mosche con le mani. È questo il grande errore politico dell’esecutivo e degli esecutivi di mezza Europa, che hanno seguito l’Italia nelle politiche di lockdown tralasciando sempre più l’aspetto della cura precoce e tempestiva della malattia, vera chiave di volta per gestire la pandemia e non lasciarsi sopraffare.
CURARE O ARGINARE?
Il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Farmacologico Mario Negri ha presentato a Repubblica il suo studio sulle terapie da assumere durante la prima fase sintomatica del covid. Al di là dei farmaci individuati, su cui il dibattito medico è aperto e controverso, colpisce una frase del giornalista che lo intervista che, forse senza saperlo, individua il cuore della gestione della pandemia: Come mai finora non si è posta grande attenzione alla necessità di iniziare la terapia il prima possibile per evitare che la malattia degeneri in modo grave?
È una domanda decisiva alla quale Remuzzi, diplomaticamente, risponde «non lo so», ma che la Bussola ha sempre cercato di rivolgere alle autorità sanitarie senza mai ricevere risposta e che abbiamo tenuto viva dando tutto lo spazio necessario ai medici che nel silenzio hanno continuato a curare il covid, guarendo i malati che non sono così andati in corsia.
Se analizziamo però i dati, la risposta sul perché non si è mai posta la necessaria attenzione alla terapia domiciliare come prima arma contro il coronavirus, c’è ed è di tipo politico-strategico. Si inquadra come una precisa scelta del governo di fronteggiare la pandemia sotto l’aspetto dell’impatto sociale e del rischio di sovraccarico ospedaliero, senza però interessarsi mai della cura precoce. Lo dimostra il fatto che il primo protocollo per i medici di base, pur con tutte le riserve sul piano clinico, è stato pubblicato dal Ministero della Salute soltanto il 1 dicembre, a seconda ondata già avviata. Anche il Corriere si è accorto che il problema delle morti è legato alla scarsa attività della medicina sul territorio, ma quando attribuisce al Cts un appello il 16 marzo per un bisogno «assoluto» di un protocollo unico per l’assistenza a domicilio dei postivi al Covid, dice una cosa che però non si riscontra nei verbali dell’epoca, né di quel giorno né quelli precedenti o successivi.
Da parte dell’esecutivo si è scelta fin da subito la strada dell’ospedalizzazione e della gestione sociale della pandemia, provocando così i ben noti lockdown. È come se il Governo avesse avuto di fronte due strade nell’affrontare il covid: curarlo o cercare di arginarlo?
La scelta è ricaduta sulla seconda strada, la quale però ora presenta un conto salato.
I VERBALI
Le tracce di questo approccio sono rintracciabili dalla lettura dei verbali del Comitato Tecnico Scientifico, l’organismo posto dal Governo a gestire e valutare la pandemia.
E fin dal 7 di febbraio, data in cui l’organismo degli esperti inizia il suo lavoro, si comprende fin da subito la direzione. Il 10 febbraio il Cts affronta il tema dei piani strategici per la gestone dell’eventuale scenario pandemico. Nessuno si straccia le vesti per la mancanza di un piano, come invece fa oggi il vice ministro Pierpaolo Sileri. Dal verbale di quel giorno ci si limita a «fare una ricognizione delle attrezzature e dello staff disponibile presso il servizio sanitario». Non si parla di come si può curare il covid. È vero che in quel periodo le terapie sono ancora lontane data la scarsità di informazioni sul nuovo virus venuto dalla Cina, ma stupisce il fatto che già in quei giorni nessuno si fosse chiesto se non era il caso di buttare tutte le energie nel cercare le cure, mentre il 12 febbraio la direzione “ospedalocentrica” è già presa: nei modelli di prepardness (preparazione) si analizza l’impatto della pandemia sul Servizio Sanitario, si verificano i posti letto in ospedale, si mappa l’offerta ospedaliera. Insomma, ci si attrezza ad affrontare il covid già in quello che è il suo stadio più grave, come se prima, nei giorni precedenti il ricovero, non ci fosse nulla da fare.
Il 21 febbraio è il giorno in cui esplode il caso Codogno e il Cts è già alle prese con le prime misure di isolamento e contenimento delle aree. Giustissimo, ma neanche qui non si parla mai di cure e terapie da ricercare.
IL MEDICO…VIGILA
Il 27 febbraio il Cts inizia a parlare di tamponi, di banca dati presso l’ISS, di acquisto di macchinari per la ventilazione. Il problema è già in terapia intensiva e bisogna così farvi fronte, ma nel frattempo la gente stava a casa in osservazione & attesa e avrebbe di lì a poco intasato i nosocomi del Nord Italia. La strategia del contenimento è ribadita anche col verbale numero 11 del 28 febbraio mentre il 29, elaborando le linee di indirizzo, si nota che «circa il 5% dei pazienti affetti da covid può presentare condizioni cliniche tali da richiedere il ricovero». È un’osservazione che dovrebbe suggerire una domanda molto semplice: che cosa ne è del restante 95%? Come lo si cura? La domanda non viene posta, nel frattempo il Cts si preoccupa di chiedere alle Regioni di rafforzare il piano d’emergenza potenziando le terapie intensive. Giusto occuparsi del 5% di pazienti gravi, ma da un comitato di esperti ci si sarebbe dovuto attendere anche una valutazione e una previsione su quei pazienti in quel momento meno gravi, ma che in assenza di cure adeguate e tempestive avrebbero di lì a poco intasato le corsie dei nosocomi, come poi è successo.
Il 1 marzo iniziano le raccomandazioni per evitare i rapporti interpersonali (strette di mano, baci e abbracci) e giorno seguente il ministro della Salute Speranza invita il Cts a «stimolare la consapevolezza individuale nei comportamenti dei cittadini attraverso misure più impegnative per la cittadinanza» e prevedere «ulteriori misure per i contenimento»: siamo alla vigilia del lockdown che avrebbe chiuso l’Italia per due mesi.
Nella stessa seduta, però, si parla finalmente del ruolo dei Medici di Medicina Generale (MMG). Il Cts affida loro il compito di «identificare i possibili contagi, assistere e curare chi è in quarantena», ma non si affronta mai il tema di come curarli, con quali terapie né ci si interroga su quali siano le evidenze scientifiche disponibili al momento per affrontare il covid tempestivamente. Ne si prendono in analisi esperienze qua e là disseminate nelle Asl che funzionano.
Finalmente il 3 marzo il Cts ospita il rappresentante del FNOMCEO, l’ordine dei medici di medicina generale e si scopre che ci sono difficoltà per i MMG a operare in riferimento all’accesso degli ambulatori. Si parla inoltre di «un approccio metodologico per la tutela degli operatori sanitari», di protezioni individuali e di dispositivi: tutte cose indispensabili, ma il concetto di terapia a domicilio non decolla né si cerca di superare le criticità emerse dal racconto del responsabile della federazione.
La figura del medico di famiglia torna all’attenzione il 9 marzo quando il Cts chiede di aggiornare le stime relative al piano sanitario. Si delineano meglio i compiti dei Medici di Medicina Generale, ma è stupefacente riscontrare la completa assenza di un loro ruolo nella fase di cura.
In sostanza devono:
- Informare l’interessato sulle misure da adottare nell’isolamento domiciliare
- Garantire l’invio delle segnalazioni al dipartimento di salute pubblica riguardanti l’insorgenza o l’aggravamento di sintomi
- Valutare la fondatezza dei sintomi segnalati anche attraverso la visita domiciliare
- Curare l’attivazione del sistema di emergenza
Si tratta di quattro compiti di controllo, di gestione dell’isolamento domiciliare, ma nessuno di questi si riferisce al compito principale che dovrebbe svolgere un medico: curare la malattia attraverso le sue conoscenze, la sua esperienza e anche attraverso le prime evidenze che erano già arrivate dalla Cina.
Entriamo nella fase calda del lockdown, i morti aumentano nelle terapie intensive, non perché il covid è invincibile, ma perché i pazienti arrivano in ospedale tardi, con la tempesta citochinica già esplosa. Eppure, nessuno dalle parti del Cts si fa delle domande. Anzi, il 21 marzo si prende atto che le misure di contenimento sono insufficienti e si decide di chiudere del tutto Lombardia, metà Emilia e parte del Veneto. Il tema di come curare nel frattempo è escluso dall’agenda. Il giorno seguente il Cts chiede di aggiornare le stime relative al piano sanitario, ma ai MMG non vengono cambiati i compiti. Il 24 marzo si ribadisce la necessità di adottare tutte le azioni necessarie «per rallentare la diffusione del virus». Si parla di rallentare, mai di curare.
Si procede così fino al picco del 27 marzo e qualche giorno dopo il 30 il ministro Speranza lancia un messaggio a cui però non si dà seguito: «Si rende necessaria un’analisi strutturata sull’azione dei medici di medicina generale». Ma a questa richiesta non viene dato seguito dato che la pandemia entra in maggio nella sua fase calante per poi scemare a giugno.
VERSO LA SECONDA ONDATA
Con l’inizio della seconda ondata, che possiamo individuare più o meno intorno al 14 settembre l’approccio non muta. Nel verbale del 29 settembre si prendono in esame le ultime due settimane di settembre e si nota che c’è stato un aumento del contagio. Così si scrive un altro documento di preparedness. In esso si pone l’accento sul contact traking «in modo da definire precocemente la catena dei contagi». Insomma, ciò che si punta a fare precocemente è agguantare i contagi risalendo nella catena, ma ancora una volta non viene posta la necessaria attenzione sulle cure precoci.
Il 1 ottobre il Cts approva un documento di “Strategia e pianificazione”, il documento con cui il governo di fatto si prepara ad affrontare la seconda ondata. È costituito da 8 pilastri. Il numero sette riguarda la gestione clinica dei casi, si delineano gli stadi di gravità delle malattie. Sono cinque, seguono la logica denunciata alla Bussola già dal professor Capucci: gli ultimi tre stadi sono quelli dove la malattia è quasi in pre morte, i primi due non vengono affrontati con la logica della cura tempestiva.
Così con le iniziative per affrontare la stagione autunno-inverno si ripete lo stesso errore: «Nel caso in cui dovesse nuovamente verificarsi un aumento rilevante del numero di casi di infezione nei mesi autunno-invernali, poterebbe nuovamente aumentare la domanda di assistenza ospedaliera in regime ordinario o in Terapia Intensiva da parte di pazienti in condizioni gravi». Ancora una volta, mentre il tema del vaccino si imponeva, non si è affrontato quello della cura della malattia presa precocemente.