Cosa resta dei gelsomini?
A due anni dal gesto disperato di Mohammed Bouazizi, la Turnisia è ancora in stato di emergenza. La ripresa economica non c'è stata. La corruzione dilaga. La nuova costituzione ha cancellato la parità tra donne e uomini. E i timori di una deriva autoritaria sono sempre più fondati.
Mentre l’Egitto fa i conti con una svolta autoritaria che ha riportato nelle strade del Cairo e delle altre principali città centinaia di migliaia di persone, divise nei due fronti dei manifestanti contro il presidente Mohammed Morsi e dei suoi sostenitori, la Tunisia si accinge a celebrare il secondo anniversario dell’inizio della ‘rivoluzione dei gelsomini’, la rivolta popolare all’origine della cosiddetta “primavera araba”.
Il 17 dicembre 2010 Mohammed Bouazizi, un giovane venditore ambulante di Sidi Bouzid, veniva maltrattato e umiliato – e non era la prima volta – dalla polizia che inoltre gli sequestrava la merce e le bilance con il pretesto di essere sprovvisto di un permesso di vendita in realtà non necessario. Troppo povero per pagare tangenti in denaro o in natura per recuperarle, il ragazzo tentava di far valere le proprie ragioni presso l’ufficio del governatore. Al rifiuto di quest’ultimo di dargli udienza, acquistava del carburante e si dava fuoco per strada. Moriva poi il 4 gennaio 2011.
Il suo gesto disperato innescava manifestazioni di protesta sempre più affollate e minacciose da parte di una popolazione esasperata dalle proprie difficili condizioni di vita – specie i giovani, disoccupati e privi di prospettive – aggravate da recenti rincari dei generi di prima necessità e sempre più insofferente nei confronti della corrotta classe politica al potere, intenta soltanto ad arricchirsi lasciando la popolazione in balia di forze dell’ordine e funzionari altrettanto corrotti.
Altre persone seguivano l’esempio di Mohammed Bouazizi nelle settimane successive mentre la dura repressione ordinata dal governo causava decine di vittime tra i dimostranti: il bilancio ufficiale reso noto un anno dopo parlava di 338 morti e 2.174 feriti. Finalmente il 14 gennaio il presidente Zine el-Abidine Ben Ali, dopo aver tentato di blandire la popolazione in rivolta con promesse di cambiamento e di rinuncia al potere alla scadenza del mandato, lasciava il paese alla volta dell’Arabia Saudita come già avevano fatto alcuni familiari e la stessa moglie, Leila Trabelsi, fuggita nei giorni precedenti portando con sé una tonnellata e mezza di lingotti d’oro prelevati dalla Banca di Tunisia. Finiva così un regime durato 24 anni a cui subentrava, dopo una periodo di transizione culminato nelle elezioni del dicembre 2011, un governo controllato dal partito islamista Ennahda e presieduto dal suo segretario, Hamadi Jebali.
Due anni non sono bastati per dare stabilità e fiducia al paese. Scioperi e proteste per le promesse non mantenute si moltiplicano tanto che il governo a novembre ha deciso di prorogare al febbraio 2013 lo stato di emergenza. La tensione cresce per i timori di una deriva autoritaria e di minacce alle libertà personali e ai diritti umani, da un lato, e, dall’altro, per la mancata ripresa economica imputabile prima di tutto alla corruzione tuttora dilagante: il 22% delle 1.050 imprese oggetto di una recente indagine condotta dall’Istituto tunisino per la competitività e gli studi quantitativi hanno dichiarato, ad esempio, di dover pagare tangenti e mazzette per operare ed evitare gli ostacoli burocratici.
Il tasso di disoccupazione nel 2011 ha superato il 18% e tra i giovani ha raggiunto addirittura il 40%, il costo della vita è cresciuto del 4,4% rispetto al 2010 e il deficit della bilancia commerciale è salito a 5,8 miliardi di dollari. Sempre nel 2011 si è avuto un crollo degli investimenti esteri diretti, diminuiti del 29% a causa dell’instabilità persistente, e nell’importante settore turistico si è registrato un -33%. Il 2012 non ha migliorato la situazione in modo significativo e lo scontento si è fatto pressoché generale. Solo all’ultimo momento, dopo una serie di scioperi, marce e sit-in dilagati in gran parte del paese a partire dalle regioni più povere e periferiche, un accordo tra governo e Unione generale dei lavoratori, il principale sindacato del paese, ha evitato uno sciopero nazionale programmato per il 14 dicembre.
Sul fronte della democrazia e dei diritti umani, si teme per un verso l’influenza delle formazioni salafite e dei Fratelli musulmani al potere. Ad agosto migliaia di donne, molte delle quali sostenute dai mariti, hanno organizzato manifestazioni al grido “no a una repubblica senza parità tra donne e uomini” per protestare contro l’articolo 28 della nuova costituzione che definisce le donne “complementari” rispetto all’uomo: un inaccettabile passo indietro in un paese che ha introdotto la parità tra i sessi nel lontano 1966. Inoltre si guarda con preoccupazione al modo in cui il governo reagisce alle critiche. Nel suo ultimo rapporto, pubblicato lo scorso ottobre, Amnesty International denuncia un aumento negli ultimi mesi delle restrizioni alla libertà d’espressione e una mano troppo dura contro i manifestanti con il pretesto di preservare ordine pubblico e morale pubblica.