Cosa manca all’Italia per vincere la crisi
Oggi alla scala planetaria l’economia è divenuta multilaterale non meno della politica. É inutile stare ad attendere un “Cavaliere Bianco” che non verrà più. É meglio che ogni Paese faccia la sua parte valorizzando le sue risorse geo-politiche ed economiche. Ebbene, è proprio questo che l’attuale governo non sta facendo.
Il recente incontro in Cina dei ministri dell’Economia dei Paesi membri, spunto di una delle consuete sibilline esternazioni del nostro ministro Padoan, ha richiamato l’attenzione sul G 20, di cui nel corrente anno Pechino detiene la presidenza. Tale posizione, frutto di una lunga e tenace iniziativa diplomatica, dà quest’anno un riscontro formale senza precedenti alla storica pretesa della Cina di essere il centro del mondo ( “Paese centrale” è il significato del suo nome in lingua cinese).
Fondato nel 1999, il G 20 è il gruppo che raccoglie insieme le super-potenze e le potenze regionali sia del mondo sviluppato sia di quello in via di sviluppo. Si tratta nell’insieme di due terzi del commercio e della popolazione del mondo e dell’80 per cento del suo prodotto interno lordo, Pil. L’incontro di cui si diceva rientrava nel programma di vertici che Pechino ha organizzato per la circostanza nelle più diverse materie. Salvo un’interruzione nell’ormai imminente agosto, dallo scorso gennaio questi vertici stanno susseguendosi uno dietro l’altro; siamo adesso alla vigilia di quello dei centri di alti studi (think tank).
Convocati via via in varie grandi città cinesi, non solo a Pechino o in metropoli comunque già note, tali incontri sono per la Cina pure un’ottima occasione per far conoscere al mondo città anche di grandissime dimensioni finora sconosciute in sede internazionale. Purtroppo, però, per le autorità di Pechino, la presidenza del G 20 è giunta in mani cinesi proprio nel momento in cui il cosiddetto “Sogno Cinese”, ossia il mito della Cina nuovo grande motore dell’economia mondiale, sta mostrando la corda. Salito al potere nel 2012, il nuovo presidente Xi Jinping aveva avviato un programma di riforme molto ambizioso, il cui punto-chiave era il raddoppio entro il 2020 del Pil pro capite della Cina rispetto al livello che aveva raggiunto nel 2010; mentre il culmine, fissato per il 2049, era la supremazia economica totale (in termini cioè sia assoluti che relativi).
Tali ambizioni non stanno però trovando riscontro nei fatti per motivi di ordine non solo prettamente economico, ma anche politico e sociale. Tra l’altro, la crisi demografica mondiale -- che è la maggiore fra le cause più censurate dell’attuale crisi economica -- colpisce particolarmente la Cina dove la pluridecennale politica del figlio unico è all’origine di un drammatico squilibrio, che a breve e medio termine risulta irrimediabile. Squilibrio ulteriormente aggravato dal soprannumero di uomini rispetto alle donne. Urgentemente bisognoso di riforme, ma difficile da riformare, è poi il mercato finanziario, la cui scarsa trasparenza viene difesa con le unghie e coi denti da coloro che gestiscono gigantesche masse di capitali frutto della corruzione.
Nel tentativo di superare gli inaspettati ostacoli che si trova davanti, Xi Jinping ha allora imboccato la strada della centralizzazione, ossia la falsa via d’uscita da cui quasi sempre si lasciano tentare i grandi riformatori delusi dall’esito dei loro progetti. La Cina sta, insomma, andando incontro a tempi difficili che non inducono certo a sperare che possa dare un contributo di rilievo all’auspicata ripresa dell’economia del globo.
D’altra parte oggi alla scala planetaria l’economia è divenuta multilaterale non meno della politica. É inutile stare ad attendere un “Cavaliere Bianco” che non verrà più. É meglio che ogni Paese faccia la sua parte valorizzando il meglio delle sue risorse geo-politiche ed economiche. Nel caso dell’Italia, la sua posizione al centro del Mediterraneo, le sue storiche buone relazioni socio-economiche, prima ancor che politiche, con il Levante e con i Paesi danubiani, nonché la qualità della sua industria manifatturiera. Ebbene, è proprio questo che l’attuale governo non sta adeguatamente facendo.
La sua politica mediterranea è al traino di quella di Paesi che nella regione hanno interessi opposti ai nostri. E la sua politica di sostegno alla nostra industria manifatturiera è disastrosa. Unicredit ha, ad esempio, pubblicato di recente una ricerca da cui risulta che sui mercati emergenti, quelli che garantiscono le migliori opportunità di crescita con nuovi consumatori pronti a domandare beni e servizi, in settori tipicamente “italiani” come il prodotto alimentare di qualità e l’abbigliamento, su mercati-chiave arriviamo terzi dopo la Germania e dopo Francia.