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Cosa ha scritto di sé Dante? Il ritratto e la famiglia

Per il ritratto di Dante e il suo aspetto fisico non possiamo rifarci a quanto il poeta ha scritto di sé, come nel caso di Petrarca che ha lasciato il proprio autoritratto nella lettera Posteritati, ma dobbiamo affidarci a Giovanni Boccaccio che tratteggiò questo ritratto dell’illustre conterraneo, avvalendosi delle testimonianze di chi lo aveva direttamente conosciuto.

Cultura 07_02_2021

Se di Petrarca si può ricostruire la vita con una precisione straordinaria, grazie anche al suo ricchissimo epistolario e alla tendenza del poeta a raccontarsi e a parlare di sé, altrettanto non si può dire di Dante, che ebbe come intento principale quello di educare con la scrittura e di descrivere la vita e l’uomo di ogni tempo sub specie aeternitatis. Poco spazio, quindi, lo scrittore riservò alle sue azioni, a fatti e vicissitudini.

Per il ritratto di Dante e il suo aspetto fisico non possiamo rifarci a quanto il poeta ha scritto di sé, come nel caso di Petrarca che ha lasciato il proprio autoritratto nella lettera Posteritati, ma dobbiamo affidarci a Giovanni Boccaccio che tratteggiò questo ritratto dell’illustre conterraneo, avvalendosi delle testimonianze di chi lo aveva direttamente conosciuto:
Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.

A questa descrizione si rifanno i ritratti dei pittori del Quattrocento e del Cinquecento: quello di Andrea del Castagno (1450) appartenente al ciclo Ciclo degli uomini e donne illustri (collocato nel Cenacolo dell'ex convento benedettino di S. Apollonia); quello di Domenico di Michelino (Dante e il suo poema, 1465) realizzato probabilmente per il secondo centenario della nascita di Dante, collocato nella Basilica di Sante Maria del Fiore a Firenze e rappresentante il Sommo poeta con la Commedia e i tre regni dell’aldilà; quello di Sandro Botticelli (1495), che fu anche illustratore dell’Inferno dantesco; Dante rivolto verso il Purgatorio (1530) di Agnolo Bronzino; il Dettaglio di Dante (1508-1509) nella Disputa del Sacramento di Raffaello Sanzio presente Stanza della Signatura (Città del Vaticano).

Le poche menzioni che Dante fece di sé nella Commedia diventano alcuni punti fermi per ricostruirne la biografia.

La nobiltà della famiglia Alighieri proveniva dal trisavolo Cacciaguida, investito del titolo di cavaliere dall’Imperatore Corrado III per aver partecipato alla seconda Crociata (1147-1149). Cacciaguida probabilmente nacque nel 1091 e morì nel 1148. Le notizie al suo riguardo sono assai scarse. Fu figlio di un certo Adamo, da quanto risulta da un documento del 1131. Ebbe due figli, da uno dei quali, Alighiero, nacque Bellincione che fu nonno di Dante.

Non sappiamo, però, con certezza se davvero Cacciaguida sia stato investito cavaliere dall’imperatore e sia morto durante la crociata. Nel Paradiso per ben quattro canti, dal XV al XVIII, proprio al cuore della terza cantica, Dante rimane in compagnia di Cacciaguida. Di certo, omaggiando il trisavolo, Dante da un lato celebra anche la propria casata e la nobilita, dall’altro esalta chi non ha esitato a combattere in nome della verità.

Il discorso di Cacciaguida permette a Dante di ricordare l’antichità della sua famiglia (a quell’epoca una famiglia antica era quella che poteva vantare capostipiti di cento, centocinquant’anni prima). Il trisavolo esclama:
O fronda mia in che io compiacemmi
Pur aspettando, io fui la tua radice […].
[…] Quel da cui si dice
Tua cognazione e che cento anni e piue
girato ha ‘l monte nella prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue
(Paradiso XV).

Cacciaguida esalta l’antica Firenze, quella dei suoi tempi, contrapposta alla città corrotta della modernità. Nel XII secolo Firenze era una città operosa, ancora «sobria e pudica». Il clima di pace dominava in città, sicché erano assenti le guerre civili, le divisioni intestine e i conseguenti esili tipici dell’epoca contemporanea al poeta. Per questo la città è ricordata come un «così riposato, […] così bello/ viver di cittadini, […] così fida/ cittadinanza, […] così dolce ostello». Le donne erano ancora oneste, il lusso non dilagava per tutta la città e non c’erano in città famiglie senza figli.

Cacciaguida è il padre di Alaghiero il vecchio, da cui discende Bellincione, la cui attività principale è quella di prestare denaro e che è il nonno di Dante Alighieri. Anche Alaghiero il giovane, figlio di Bellincione e padre di Dante (Durante) Alighieri, prestava denaro nomine lucri (con interesse), anche se non svolgeva solo quell’attività. La famiglia di Dante era una famiglia che contava a Firenze, perché aveva un cognome da quattro generazioni, era quindi conosciuta, mentre le persone del popolo erano indicate solo col nome e il patronimico (figlio di).

Il vero nome di Dante era Durante, nome diffuso a Firenze, non presente nella genealogia degli Alighieri, forse proveniente dalla famiglia materna. La madre di Dante, Bella, morì giovane. Alaghiero, che si risposò con Monna Lapa, morì probabilmente prima del 1279, visto che l’umanista Bruni (1370-1444) scrive che Dante perse il padre nella sua puerizia (fase della vita che finiva a quattordici anni).

Dante non cita mai suo padre né tantomeno la madre nelle sue opere, ma presenta un suo cugino Geri (contrazione di Ruggeri) figlio di Bello, fratello di Bellicione, nella nona bolgia di Malebolge ove si trovano i seminatori di discordia. Nel canto XXIX dell’Inferno Dante si rivolge a Virgilio con queste parole:
[…] Dentro a quella cava
dov’io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa.

Dante è ben conscio che il cugino Geri è sdegnoso nei suoi confronti perché la «violenta morte» subita non è ancora stata vendicata da «alcun che de l’onta sia consorte». Virgilio sprona Dante a lasciar perdere quel parente e quella mentalità vendicativa:
[…] Non si franga
Lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;
ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi’ ‘l nominar Geri del Bello.

La vendetta era un costume praticato e la famiglia di un assassinato era tenuta a cancellare l’onta. Dante prova compassione per Geri che esprime rancore nei suoi confronti, ma non condivide tale usanza e attraverso le parole di Virgilio mostra in maniera categorica il proprio giudizio. Geri del Bello era stato ucciso nel 1287 da un membro della famiglia Sacchetti. La vendetta non arrivò da parte di Dante, ma da uno dei nipoti (Lapo) che uccise uno dei Sacchetti.