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PIRANDELLO. GENIO DEL NOVECENTO/ 15

Cosa ha bisogno l'uomo per ritrovare l'unità perduta?

Si conclude con questo articolo, la nostra indagine sull’opera di Luigi Pirandello. Nel percorso di questi mesi abbiamo dimostrato come tutti i racconti dello scrittore siciliano siano attraversati dalla domanda su che cosa sia l’uomo, dove possa trovare la sua autenticità, in qual modo possa vivere davvero e non solo esistere.

Cultura 08_02_2015
Luigi Pirandello

In tutta la sua produzione Pirandello cerca di mettere in luce il dramma dell’uomo contemporaneo, frammentato, senza certezze, alla ricerca di un Ideale che ricomponga la sua “unità perduta”. Proprio negli anni in cui Freud rivoluziona la psicologia, Einstein introduce la relatività, Picasso inserisce la dimensione spazio-temporale nel quadro dando avvio al cubismo analitico, il grande genio di Pirandello descrive la “perdita del centro” (Hans Sedlmayr) da parte dell’uomo, l’avvento del relativismo culturale e l’affermazione dell’homo technologicus. Un autore così, che comprende la cultura contemporanea tanto da anticiparne e coglierne gli sviluppi, non viene certamente compreso dai lettori e dagli intellettuali coevi. Proprio per questo la sua produzione è stata, spesso, ridotta e classificata all’interno di rigide e semplicistiche gabbie. 

Nel percorso di questi mesi spero che sia stato sufficientemente dimostrato come l’opera di Pirandello sia attraversata dalla domanda su che cosa sia l’uomo, dove possa trovare la sua autenticità, in qual modo possa vivere davvero e non solo esistere. In poche parole la questione è come la persona possa trovare il suo destino, come il nomen possa davvero concretare l’omen (che significa “profezia, augurio, destino”). Che cosa può liberarci da quella prima lettera “N” del nomen perché si possa trovare il proprio compimento? Alcuni personaggi intraprendono la strada della ricerca di una libertà eslege, al di fuori di condizionamenti familiari, lavorativi, sociali. Così, sbarazzatosi del suo nome, Mattia Pascal si tramuta in Adriano Meis, convinto di poter essere artefice del suo destino. Si rende ben presto conto che la sua libertà, che all’inizio gli era parsa senza limiti, può essere chiamata solitudine e noia e lo condanna ad «una terribile pena: quella della compagnia» di se stesso. Arriva a questa conclusione: «Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici? Mi ero stimato felice con la cappa di piombo della menzogna addosso».

Vitangelo Moscarda, invece, dopo aver rinunciato a tutto, al lavoro, alla famiglia, agli averi, approda a una sorta di annichilimento dell’io, ad una riduzione a puro spirito che si identifica di volta in volta con un aspetto della natura, rinunciando, però, a qualsiasi forma. Serafino Gubbio, divenuto homo technologicus che comunica attraverso le riprese della telecamera, si riduce alla fine all’afasia e all’incomunicabilità totale. Sono solo alcuni esempi di personaggi che falliscono nell’impresa di divenire davvero protagonisti della propria esistenza. Che cosa può allora davvero riaccendere l’uomo, far sì che l’io viva pienamente e non semplicemente esista come i molluschi, le farfalle, i ragni? Ecco che nella vastissima produzione pirandelliana compaiono tracce di risposta. 

L’uomo assopito dal trambusto quotidiano, addormentato dalle incombenze e dal divertissement in cui vive, ha bisogno che accada qualcosa che risvegli il suo io, la sua sete di felicità. Lo capiamo dalle stupende novelle Il treno ha fischiato o Ciàula scopre la Luna. L’uomo è come un bambino, che scopre la realtà solo nel momento in cui la guarda con stupore e meraviglia. E proprio come un bambino ciascuno di noi ha bisogno di un padre, di un autore che gli indichi una strada percorribile. È l’autore che cercano I sei personaggi, è quell’autore che Giovanni Testori, rileggendo il dramma pirandelliano, identifica nel maestro o addirittura in Dio (si veda l’opera I promessi sposi alla prova). Ancora, poi, nella trilogia del mito, scritta tra il 1928 e il 1936 (anno della morte del drammaturgo), Pirandello tenta di rintracciare la verità nell’ambito socio-politico, in quello artistico e in quello religioso: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna. Consigliamo una rilettura attenta di tutta la trilogia. Nel Lazzaro leggiamo che è necessario «ridare le ali» a coloro a cui «sono mancati i piedi per camminare sulla terra» (speranza), dobbiamo «vivere in Dio le opere che compiamo» (offerta), cercare il «centuplo quaggiù prima che l’eternità» (felicità e salvezza). 

Che cosa può ricomporre il dissidio, la lacerazione e il dramma che vive l’uomo? Sentiamo direttamente Pirandello nell’intervista sorprendente che rilascia a Carlo Cavicchioli nel 1936: «Cristo è carità, amore. Solo dall’amore che comprende, e sa tenere il giusto mezzo fra ordine e anarchia, fra forma e vita, è risolto il conflitto». Nella stessa intervista Pirandello si compiace che la sua produzione non sia mai stata ritenuta eterodossa dalla Chiesa: «Sono anche lieto che nessuna autorità religiosa abbia trovato da condannare. […] La Civiltà Cattolica ne ha parlato a fondo […] e conviene della sua perfetta ortodossia […] Perfetta ortodossia in quanto posizione di problemi. E tali problemi non comportano che una soluzione cristiana». Pirandello ci indica anche dove sia più presente nella sua opera la risposta al problema umano: «Nel Lazzaro do la risposta più netta al dissidio fondamentale del mio teatro».