Cosa è successo davvero a Valencia, fuor di catastrofismi climatici
A Valencia, dove sono state fatte migliori opere pubbliche, la popolazione si è salvata dall'acqua. L'adattamento è l'unico intervento umano possibile per salvarsi da eventi estremi (che ci sono sempre stati)
L’alluvione di Valencia del 29 ottobre 2024 ha colpito quest’area della Spagna provocando moltissimi morti (si parla di 158 ma la cifra è ancora provvisoria). Dopo la più sentita partecipazione al lutto che ha colpito una comunità cui ci legano millenni di storia e cultura, è bene fare alcune riflessioni sull’accaduto.
Anzitutto Valencia è costruita in pianura nei pressi del mare e si trova in una conca circondata da rilievi che sono più elevati a nordovest (monte Javalambre nella sierra omonima, 2020 m di altezza) e dunque nell’area in cui si è registrato il massimo pluviometrico nell’evento del 29 ottobre (324 millimetri). Una tale conformazione del territorio è favorevole alla genesi di precipitazioni intense che si legano anche al fatto che di fronte a Valencia vi sono le isole Baleari, note ai meteorologi come una delle principali zone ciclogenetiche del Mediterraneo, seconde solo al golfo di Genova. Per zona ciclogenetica intendiamo un’area del bacino del Mediterraneo in cui per una serie di effetti concomitanti (ingresso di aria fredda dall’esterno del bacino, presenza e forma dell’orografia, effetti legati alle temperature marine) è frequente assistere allo sviluppo di minimi depressionari isolati spesso forieri di precipitazioni intense e persistenti. In questo caso si parla di “minimi delle Baleari” che non di rado nel loro moto verso est giungono ad influenzare anche l’areale italiano.
Quando l’aria umida marina, spinta dai minimi depressionari delle Baleari irrompe nella conca di Valencia è costretta a salire dall’imponente rilievo e produce precipitazioni di elevata intensità. In virtù di ciò la città di Valencia non è nuova ad eventi alluvionali estremi, l’ultimo dei quali fu quello del 1957 che produsse molti morti (oltre 80 secondo alcune fonti, circa 300 secondo altre) per effetto dello straripamento dei fiume Turia. Proprio per evitare tali alluvioni, negli anni ‘60 il Turia fu deviato verso sud per farlo scorrere al di fuori della città e per questo motivo la maggior parte dei morti dovuti all’alluvione del 29 ottobre scorso non si sono avuti a Valencia mai nei comuni limitrofi, ove sono forse straripati corsi d’acqua secondari sulla cui gestone occorrerà indagare per capire meglio le origini del disastro. Peraltro la vicenda del fiume Turia è emblematica del fatto che il rischio alluvionale si può mitigare tramite adeguate opere di ingegneria.
Esiste una diffusa corrente di pensiero secondo cui il fatto che il Mediterraneo sia sempre più caldo (fatto di per sé indiscutibile) esporrebbe ad un rischio sempre più elevato di piogge estreme. Al riguardo esiste un ulteriore particolare, di norma sottaciuto: l’aria fredda che dall’Artide o dall’area siberiana irrompe nel bacino del Mediterraneo producendo perturbazioni come i minimi delle Baleari è oggi meno fredda che in passato e ciò in quanto il riscaldamento globale si manifesta con maggiore intensità alle alte latitudini. La conseguenza di ciò è che il contrasto termico rispetto all’aria calda mediterranea è oggi meno violento che in passato.
Altro elemento su cui riflettere è dato dagli eventi alluvionali di inudita violenza verificatisi quando il Mediterraneo era più freddo: si pensi all’alluvione di Genova del 1970 (nel bacino del Polcevera piovvero oltre 900 millimetri in un solo giorno, la pioggia di 1 anno) o all’alluvione di Nicolosi in Sicilia (15-18 ottobre 1951 - 1366 mm in 4 giorni, la pioggia di 3 anni) o a quella di Sicca d’Erba in Sardegna (14-18 ottobre 1951 - 1536 mm in 5 giorni, anche qui la pioggia di 3 anni) o a quella della Calabria (16-18 ottobre 1951, oltre 1500 mm in tre giorni). E qui si noti che le tre alluvioni del 1951 furono tutte frutto di un grande minimo depressionario di potenza inaudita sviluppatosi sul basso Tirreno nella seconda decade di ottobre del 1951, annus horribilis perché a inizio novembre dello stesso anno si verificherà la grande alluvione del Polesine.
In sintesi il mare caldo può certo essere un fattore predisponente per fenomeni alluvionali, ma non può essere in alcun modo considerato come l’unico fattore in gioco e al riguardo ricordo che a rendere l’Italia e il Mediterraneo strutturalmente esposti a eventi precipitativi estremi concorrono almeno quatto ulteriori fattori:
1. la presenta di un’orografica imponente (Alpi ed Appennini nel caso dell’Italia, Pirenei e le tante sierre in Spagna) che favorisce l’intensificazione orografica delle precipitazioni
2. la vicinanza di regioni sorgenti di masse d’aria fredda (Atlantico settentrionale, areale siberiano, Artide)
3. la vicinanza all’areale atlantico, fucina di grandi depressioni a forma di V (cassature) che non loro moto da ovest verso est investono periodicamente il bacino mediterraneo generando minimi depressionari secondari (in gergo minimi di cut off)
4. il trovarsi nella zona delle medie latitudini dell’emisfero Nord in assoluto più favorevole alla genesi di sistemi di blocco, e cioè di strutture meteorologiche di grandi dimensioni e che persistono a lungo su uno stesso territorio rendendosi responsabili di alluvioni, siccità, grandi ondate di freddo e di caldo.
Insomma, l’Italia e più in generale il Mediterraneo hanno un clima stupendo, ma che in alcune situazioni può divenire molto, molto pericoloso. Il messaggio è dunque che bisogna imparare a convivere con il nostro clima, adeguando i nostri insediamenti e le nostre attività alle sue caratteristiche. Al riguardo, in questi decenni si sono fatte molte cose positive e ad attestarlo sono i dati della banca dati POLARIS del CNR Irpi, dai quali risulta che dal 1951 ai giorni nostri il numero di alluvioni con morti nel nostro Paese è calato significativamente. Ciò non toglie che in futuro si possa e si debba fare ancora meglio e al riguardo un esempio molto positivo ci viene dalle statistiche mondiali della mortalità annua per catastrofi meteo-climatiche e idrologiche tratte dal dataset EMDAT, gestito dal centro CRED dell’Università Cattolica di Lovanio: tale mortalità è passata infatti dagli 485 mila morti annui come media del decennio 1920-29 ai soli 18 mila morti annui come media del 2010-2022. In sintesi dunque i morti sono oggi 27 volte meno rispetto a quelli di cent’anni fa e ciò nonostante la popolazione mondiale sia quadruplicata, passando da 2 a 8 miliardi di abitanti.
Insomma: mai lasciarsi travolgere dall’idea di crisi climatica che la politica e i media instillano in tutti noi ad ogni più sospinto e condurre invece con perseveranza serie politiche di adattamento al clima che cambia, anche sulla scorta dei tantissimi esempi storici di cui è ricco il nostro passato, dalle dighe realizzate nel medioevo in Olanda per difendere dal mare le terre coltivate ai terrazzamenti costruiti su Alpi e Appennini durante la Piccola era glaciale per proteggere le colture dal freddo e dall’eccessiva piovosità.