Corea del Nord, disgelo sì. Ma non per i suoi cittadini
Carcere duro, torture, aborti forzati. Sono dettagli raccapriccianti quelli che emergono dai racconti dei defezionisti della Corea del Nord, raccolti in un nuovo rapporto sudcoreano. E scene di misere condizioni della vita quotidiana. Sotto Kim Jong-un le cose sono peggiorate. Il disgelo riguarda i rapporti con gli Usa. Non i comuni cittadini.
Il disgelo con la Corea del Nord riguarda soltanto il pur importante tema della denuclearizzazione della penisola. Per il resto, il “regno eremita” resta un regime del terrore, stalinista puro, mai riformato. Un nuovo rapporto pubblicato in Corea del Sud e ripreso dal Wall Street Journal negli Usa, raccoglie una serie di racconti dell’orrore.
Le condizioni per i nordcoreani sono addirittura peggiorate dopo l’ascesa al potere di Kim Jong-un. Preoccupato dall’aumento delle defezioni, che erano fra le 2500 e le 3000 all’anno nel periodo che va dal 2007 al 2011, il primo provvedimento preso dal giovane Kim è stato proprio quello di blindare il confine, d’accordo con la Cina. I fuggitivi e i loro complici catturati al confine cinese (l’unico relativamente attraversabile) sono condannati ad anni di detenzione nei gulag nordcoreani, in condizioni durissime. La crescente difficoltà è testimoniata dall’aumento dei prezzi chiesti dai passatori: da una media di 100 dollari a fuga, agli attuali 2000 dollari. Chi viene scoperto al di là del confine, viene spesso arrestato dalla polizia cinese e rimpatriato. Una volta rientrate, le donne incinta sono costrette ad abortire, se il padre non è un nordcoreano.
I campi di lavoro, i gulag del regime di Kim, stanno crescendo. Sono 100mila gli internati, secondo le stime dell’Onu, che di recente ha pubblicato il suo rapporto, frutto del lavoro di una commissione internazionale. Il numero di prigionieri è in aumento: foto satellitari rivelano la costruzione di nuove baracche nel campo di Yodok, il più tristemente famoso del paese. Il rapporto sudcoreano mostra frammenti di vita dei prigionieri. Nell’ottobre del 2016, quattro uomini e tre donne son state fucilate in un aeroporto vicino al confine con la Cina. Nel febbraio del 2015, cinque uomini sono stati giustiziati in uno stadio, presso Pyongyang, con migliaia di persone di pubblico ad assistere all’esecuzione. Una piccola commerciante, chiamata Kim Young-hee, ha dovuto subire torture quotidiane. Chiusa in una cella, infestata di insetti, con una ventina di altre donne, veniva frequentemente frustata dalle guardie. La sua colpa era quella di aver aiutato la sorella, ancora bambina, a fuggire dal paese. “Park” (nome di fantasia), intervistata dal Wall Street Journal, è stata incarcerata anche lei in condizioni durissime, un anno di detenzione per aver tentato la fuga. Nonostante l’esperienza, nel 2012 è scappata di nuovo. In quell’occasione, per evitare di essere catturata ancora, si era portata dietro anche una capsula di cianuro, preferendo la prospettiva del suicidio a quella dell’arresto e della tortura. Ufficialmente, il regime nega tutto. Nega l’esistenza dei campi di concentramento e anche l’esistenza stessa di un problema dei diritti umani.
Le storie dei fuggiaschi rivelano anche le misere condizioni della vita quotidiana. Kim Young-hee, ad esempio, racconta di come i funzionari del partito domandassero “pizzi” in natura sempre più esose per lasciar vivere la gente comune, chiedevano pellicce di coniglio in cambio di un permesso di commercio. Lei vendeva patate, spesso pagate non in denaro ma col baratto. Dalle testimonianze di altri defezionisti, emerge una realtà estremamente corrotta e molto violenta. Bande di giovani picchiano e ricattano. Funzionari e agenti di polizia chiedono il pizzo. La borsa nera è dilagante, vi si comprano articoli contrabbandati dalla Cina e dalla Corea del Sud, ma le punizioni che si rischiano sono severissime e chiunque è ricattabile.
Sono soprattutto queste le condizioni che spingono alla fuga tanta gente, nonostante i rischi crescenti. In tutto sono circa 25mila i nordcoreani fuggiti nel Sud, dal 1953 (fine della guerra di Corea) ad oggi. Non si sa quanti si nascondano in Cina, ma sono probabilmente più numerosi. I più scappano in Cina, attraverso il lungo confine del fiume Yalu, non potendo attraversare la zona demilitarizzata che divide il Nord dal Sud della penisola coreana, fortificata e fortemente presidiata. La rotta dei fuggitivi passa dalla Cina continentale e sfocia spesso nei paesi del Sudest asiatico, dove i defezionisti chiedono l’asilo politico alla Corea del Sud. Una lunga rotta sotterranea che attraversa tutta l’Asia orientale, dunque. Il regime ricorre a dimostrazioni di forza e crea precedenti esemplari per scoraggiare l’emigrazione. Ad esempio, nel giugno del 2013, aveva arrestato all’estero un gruppo di nove adolescenti rifugiati nel Laos, un altro regime comunista, poi li aveva mostrati alla televisione di Stato, facendo loro leggere una dichiarazione di pubblico pentimento. Un altro metodo usato di frequente, come nel caso di “Park” è il ricatto: i parenti del defezionista rimasti in patria vengono tenuti in ostaggio.
Il presidente Trump ha parlato esplicitamente del problema dei diritti umani in Corea del Nord. Lo studente americano Otto Warmbier è una vittima del regime. I tre cittadini statunitensi di origine coreana, rilasciati da Kim all’inizio di maggio, come gesto di buona volontà, Kim Dong-chul, Kim Hak-song e Kim Sang-dok, hanno vissuto l’esperienza della detenzione in Corea del Nord, dopo processi farsa. Trump ha denunciato la violazione dei diritti umani nel “regno eremita” in occasione del suo discorso all’Assemblea Generale dell’Onu, a settembre, poi in quello al parlamento sudcorano a novembre e infine nello Stato dell’Unione, invitando al Congresso il defezionista Ji Seong-ho. Ma nel corso del suo dialogo a distanza con Kim, dunque negli incontri preliminari condotti da membri della sua amministrazione, non si parla più di diritti umani. E il tema non è in agenda neppure per il prossimo summit, il primo incontro faccia a faccia fra i due capi di Stato di Usa e Nord Corea.